Cardiorete 2011


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Violini

STEMI: CIO' CHE LE LINEE GUIDA NON DICONO

Roberto Violini
UO Cardiologia Interventistica, AO S.Camillo Forlanini - Roma


Uno strumento fondamentale dell'EBM sono le linee guida, che costituiscono il complesso delle indicazioni diagnostiche e terapeutiche che panel di esperti redigono per indirizzare la pratica clinica su binari basati sui risultati di trial e registri e non sulla consuetudine e su pratiche di non dimostrata efficacia. Il risultato finale è rappresentato da un approccio clinico e terapeutico più razionale, che rifugge da personalismi e che si traduce in percorsi e terapie condivise dall'intera comunità medica. Le Società Scientifiche internazionali sono gli attori principali di questa operazione, poichè si adoperano per dar vita a linee guida sulle patologie più diffuse, con uno sforzo notevole di mantenerle aggiornate ed adeguate all'evoluzione della farmacologia e della tecnica.
Su queste basi si inseriscono però, diverse variabili che rischiano di alterarne l'efficacia. Prima di tutto si può rilevare negli ultimi anni la pubblicazione di una pletora di linee guida: solo sull'infarto miocardico acuto STEMI sono stati pubblicati, tra il 1999 ed il 2010, almeno 11 documenti internazionali, oltre a quelli nazionali. Ciò comporta ovviamente un'evoluzione troppo rapida delle indicazioni, a cui non si fa in tempo a adeguarsi e l'inserimento di statement non sempre coerenti tra di loro o che si rovesciano troppo rapidamente. Inoltre, troppo spesso le linee guida pongono un eccessivo numero di alternative per il trattamento di alcune situazioni cliniche (per es. sono in classe I tre antitrombotici per le NSTEMI e tre antiaggreganti associabili all'ASA per le STEMI) senza indicare in quali situazioni preferire l'uno all'altro. D'altronde alcuni trattamenti sono riservati a pazienti "selezionati" o "ad alto rischio", senza spiegazione di questi concetti. Queste considerazioni creano spesso l'esigenza di approfondire le indicazioni non univoche delle linee guida e, contemporaneamente, stimolano critiche alla metodologia con cui esse sono redatte.
Come ho citato negli esempi, le linee guida delle ACS STEMI non sono esenti da questa problematica e nel percorso "Verso Intercardio 2012" che si e' svolto quest'anno, un panel di esperti ha discusso alcun dei interrogativi che rimangano controversi e che riassumo in questa nota.

Dopo trombolisi efficace, PCI a tutti o solo in casi selezionati?
Entrambe le tecniche di rivascolarizzazione miocardica dello STEMI, l'angioplastica primaria e la trombolisi, sono riconosciute indispensabili nell'approccio terapeutico del paziente (Classe IA). La scelta dell'una rispetto all'altra è dettata principalmente dalla possibilità di accesso alla metodica, facile per la trombolisi, più complessa per l'angioplastica primaria. L'organizzazione territoriale del trattamento dello STEMI mette in conto tali difficoltà e per questo realizza le reti collaborative tra gli ospedali a diversa dotazione tecnologica, sistema che viene chiamato Hub & Spoke.
La forte raccomandazione ad inviare ad un centro Hub tutti i pazienti riperfusi efficacemente con la trombolisi in uno Spoke non ha ancora solide basi scientifiche. La scelta dell'invio si baserà quindi sulle caratteristiche di rischio del paziente stesso o dell'infarto che lo ha colpito, riflettendo sul significato clinico di un possibile nuovo evento ischemico. Il trasferimento sistematico, invece, ad oggi potrebbe distogliere energie dal campo principale di intervento, che è, e rimane, la precocità della riperfusione, in ospedale o, meglio ancora, prima che il paziente vi acceda.

STEMI con presentazione tardiva: PCI si o no e quando?
L'angioplastica primaria ricopre un ruolo di esclusività nella scelta terapeutica dell'infarto miocardico con presentazione tardiva. Secondo le linee guida dell'European Society of Cardiology (ESC) la riapertura del vaso colpevole di un infarto miocardico STEMI è raccomandata entro le 12h dall'insorgenza dei sintomi ma non oltre le 60h. Nei casi con una presentazione compresa tra le 12h e le 60h, il beneficio appare evidente solo per i pazienti instabili o con persistenza dei sintomi (classe I), mentre è ancora incerta l'indicazione alla rivascolarizzazione negli asintomatici. Le linee guida dell'American Heart Association/American College of Cardiology sono sostanzialmente concordi nel procedere ad una rivascolarizzazione percutanea in caso di instabilità o di persistenza dei sintomi (dolore toracico, instabilità emodinamica, shock cardiogeno, insufficienza cardiaca con una frazione di eiezione del ventricolo sx<40%, aritmie maggiori) senza particolari vincoli temporali, mentre la scelta terapeutica rimane incerta nei pazienti sintomatici con presentazione compresa tra le 12h e le 24h e non raccomandata oltre le 24h.
Nei pazienti asintomatici con presentazione compresa tra le 12h e le 72h è invece necessaria un'attenta selezione clinica al fine di stabilire il reale beneficio del trattamento riperfusivo mediante angioplastica. L'elemento discriminante risulta essere la presenza o meno di vitalità miocardica nel territorio da riperfondere. Gli studi clinici ci ricordano come la persistenza della pervietà del vaso responsabile dell'infarto - flusso anterogrado oppure circoli collaterali - sia correlata ad un miocardio ibernato e/o stordito; in questi casi è dimostrata una buona evoluzione in termini di rimodellamento postinfartuale nonché di recupero funzionale del muscolo cardiaco
Non vi è evidenza invece sul beneficio derivante dalla rivascolarizzazione nei casi di occlusione del vaso senza flusso, in tali situazioni si devono aggiungere elementi di valutazione prima di riperfondere: un'attenta anamnesi può discriminare un'angina pre-infartuale datando con maggiore precisione l'inizio dell'evento ischemico; l'ecocardiogramma può dare indicazioni sullo stato di vitalità del muscolo valutando la cinetica (ipocinesia piuttosto che acinesia) e gli spessori parietali. La risonanza magnetica nucleare e i test di vitalità sono indagini indubbiamente più precise nella diagnosi di miocardio stordito e/o ibernato, ma il loro impiego nelle fasi iniziali di un evento infartuale risulta difficoltoso.

Alla luce dei recenti trial, è giunta l'era dei DES durante PCI primaria o rescue?
Purtroppo i risultati dei numerosi studi sull'argomento restano a tratti contraddittori e quindi non conclusivi, ma complessivamente rassicurano sull'assenza di problemi maggiori di sicurezza dei DES confermandone l'efficacia nel ridurre le nuove rivascolarizzazioni. È ipotizzabile, ma resta da provare, che i DES di nuova generazione siano più sicuri ed efficaci dei DES di prima generazione con cui sono stati condotti finora gli studi. Queste caratteristiche potrebbero renderli più utili anche nel setting dell'infarto miocardico acuto. Nel frattempo, il modo migliore di impiegare i DES nell'angioplastica primaria e rescue appare quello selettivo, prediligendo sottogruppi di pazienti a maggior rischio di ristenosi e preferibilmente con modesto carico trombotico .
L'ultimo studio randomizzato in ordine di tempo, ma certamente tra i più importanti, è il trial HORIZONS-AMI (Harmonizing Outcomes with Revascularization and Stents in Acute Myocardial Infarction). In questo studio, l'impiego del paclitaxel-eluting stent era associato ad una riduzione significativa della ristenosi angiografica e della necessità di nuove rivascolarizzazioni nei confronti degli stent metallici convenzionali (bare metal stents, BMS), in assenza di problemi di sicurezza : uno score realizzato sulla base dei risultati di questo studio ha evidenziato come piccoli vasi (< 3 mm), diabete trattato con insulina, lesioni ulcerate, classe Killip 2-4 e soprattutto lesioni lunghe (> 40 mm) sono i fattori di rischio della restenosi e quindi le indicazioni principali al DES nell'IMA.

Quale regime terapeutico antiaggregante preferire e quando?
In corso di infarto miocardico acuto STEMI sappiamo come l'obiettivo terapeutico principale debba essere la ricanalizzazione dell'arteria "culprit". Questo può avvenire attraverso il trattamento farmacologico mediante trombolisi sistemica o in maniera più efficace mediante angioplastica percutanea (PCI) ed impianto di stent. Quindi la terapia antiaggregante piastrinica rappresenta un ausilio terapeutico determinante da effettuare sia in fase acuta, sia a lungo termine per prevenire la trombosi acuta e tardiva di stent intracoronarici.
Aspirina: Una recente metanalisi mostra come il trattamento con Aspirina riduca il 30% degli eventi avversi vascolari maggiori ad un mese con il beneficio netto di 3.8 eventi per 100 pazienti trattati. Il dosaggio in corso di Sindrome Coronarica Acuta è attualmente dibattuto. Le linee guida ESC sulla rivascolarizzazione percutanea durante STEMI suggeriscono la somministrazione di ASA al dosaggio di 150-300 mg per os, o 250-500 mg per via endovenosa. La terapia di mantenimento deve essere somministrata a tempo indeterminato con il dosaggio di 75-100 mg/die. Di recente lo studio CURRENT-OASIS 7 non ha mostrato differenze significative nella riduzione degli eventi primari (morte; re-infarto e stroke a 30 giorni) confrontando i pazienti trattati con dosaggio di Aspirina 300-325 mg vs. 75-100 mg. Al contrario il gruppo di pazienti trattati con alto dosaggio di Aspirina mostravano un incremento di sanguinamenti maggiori.
Tienopiridine: Nel setting dello STEMI, i benefici clinici della doppia terapia antiaggregante piastrinica sono stati dimostrati nello studio COMMIT-CCS2 e CLARITY-TIMI. Recentemente lo studio CURRENT- OASIS 7 ha valutato come il "doppio-dosaggio" di Clopidogrel (bolo 600 mg seguito da 150 mg/die per 6 giorni) rispetto al dosaggio standard riduca del 15% il RRR dell'end point primario composito morte, re-IMA e stroke, con un aumento significativo dei sanguinamenti. Le attuali linee guida suggeriscono il bolo di Clopidogrel 300-600 mg al primo contatto medico, seguito da un dosaggio di mantenimento di 75 mg/die. La variabilità interindividuale alla risposta del paziente al Clopidogrel e le diverse forme di resistenza, rappresentano un problema da non sottovalutare.
Una tienopiridina di terza generazione, il Prasugrel, sembra aver superato molti limiti del Clopidogrel grazie alla sua maggiore e rapida inibizione del recettore P2Y12. Nello studio TRITON-TIMI 38, dove sono stati arruolati 13.608 pazienti con SCA incluso lo STEMI, il Prasugrel, somministrato ad un dosaggio bolo di 60 mg seguito da 10 mg/die, ha mostrato una riduzione assoluta del 2.3% e del 19% del rischio relativo di morte, re-infarto e stroke, a costo di un lieve incremento dei sanguinamenti maggiori. In particolare, nello studio dei sottogruppi di analisi, il Prasugrel è risultato particolarmente efficace nei pazienti affetti da Diabete Mellito in corso di STEMI. Al contrario, nei pazienti di età >75 anni; con peso <60Kg e con anamnesi positiva per stroke, il Clopidogrel si è rivelato più sicuro ed efficace rispetto al Prasugrel.
Un nuovo step nella terapia antiaggregante piastrinica in corso di STEMI è rappresentato dai nuovi inbitori, reversibili, del recettore 2PY12: Ticagrelor e Cangrelor. Nello studio PLATO, il Ticagrelor ha dimostrato una rilevante efficacia nella riduzione degli eventi avversi cardiaci maggiori (MACE) al follow-up di 1 anno (-16% RRR); tuttavia, nel sottogruppo dei pazienti trattati con Ticagrelor si è osservato un incremento dei sanguinamenti che non raggiunge la significatività statistica. Il dosaggio suggerito dalla linee guida ESC in corso di STEMI è di 180 mg in bolo seguito da 90 mg x 2/die.

Dopo aver effettuato un intervento di rivascolarizzazione coronarica con impianto di stent in un paziente con sindrome coronarica acuta, le attuali linee guida ESC raccomandano la somministrazione di doppia terapia antiaggregante piastrinica a medio termine. Le attuali indicazioni suggeriscono la durata di almeno 12 mesi dopo l'impianto di stent indipendentemente se drug eluting stent o bare metal stent. Tuttavia, l'update 2009 ACC/AHA del management dello STEMI suggerisce il prosieguo della doppia terapia antitrombotica fino a 15 mesi, compatibilmente con il rischio di sanguinamento del paziente. La sospensione prematura della terapia antipiastrinica va sempre sconsigliata in quanto è gravata da un elevato rischio di trombosi intrastent.
Inibitori GP IIb/IIIa: Nel setting dello STEMI l'Abciximab è il farmaco più studiato; tuttavia, gli studi MULTISTRATEGY ed EVA-AMI hanno confrontato rispettivamente il tirofiban (745 pazienti) e l'eptifibatide (427 pazienti) con l'abciximab, dimostrando la non-inferiorità in termini di risoluzione del tratto ST e riperfusione miocardica dei primi due. Nel registro SCAAR, condotto su oltre 11.000 pazienti affetti da STEMI, l'eptifibatide non ha mostrato segni di inferiorità rispetto all'abciximab in termini di MACE (15% vs 15.7%). Pertanto, nell'update del 2009 delle linee guida ACC/AHA sul management dello STEMI, si raccomanda l'utilizzo di qualsiasi inibitore IIb/IIIa, indipendentemente dal tipo di molecola, al momento dell'angioplastica primaria. La via di somministrazione intracoronarica in corso di angioplastica primaria è da preferire; è stato infatti dimostrato come questa via di somministrazione rispetto a quella sistemica riduca in maniera significativa l'infarct size a 2 giorni, misurato con risonanza magnetica cardiaca.
Le piu' recenti linee guida limitano comunque la somministrazione di inibitori GP IIb/IIIa a pazienti a piu' alto rischio, particolarmente se con ampio burden trombotico.

STEMI con shock cardiogeno: prima di tutto riperfondere o assistere il ventricolo?

Le recenti linee guida raccomandano l'utilizzo dello IABP in caso di deterioramento emodinamico del paziente, come supporto alla PCI primaria del vaso "culprit", più per una consuetudine d'uso che raccoglie ampio "consenso" che per provati studi clinici controllati. Qualora non si riesca ad ottenere una stabilizzazione clinica ed emodinamica adeguata del paziente, se ritenuto utile e necessario, si deve operare una rivascolarizzazione multivaso, il più completa possibile, almeno per le ampie zone di miocardio potenzialmente vitale sotto stenosi. Questo approccio è ovviamente fattibile nel caso sia comunque presente uno stato circolatorio, seppur deficitario, sufficiente a consentire l'intervento di rivascolarizzazione mediante PCI. I metodi che utilizzano i VAD potrebbero aggiungere un ulteriore beneficio solo nel caso in cui, dopo la rivascolarizzazione miocardica ed il supporto con IABP, non si riesca a raggiungere una stabilità emodinamica sufficiente a prevenire un "end-organ failure" e conseguente morte, o eventualmente come ponte ad eventuali ulteriori interventi (trapianto). In caso di profondo shock emodinamico che vanifica l'efficace utilizzo dello IABP e che non consente la possibilità immediata di rivascolarizzazione con PCI o, addirittura, in caso di arresto cardiaco meccanico refrattario, sarà da prendere in considerazione, come primo approccio interventistico, un supporto circolatorio con i VAD o con ECMO e, successivamente, la rivascolarizzazione miocardica con PCI primaria o eventualmente chirurgica. L'uso di tale assistenza circolatoria deve prevedere, soprattutto per l'ECMO, la condivisione di programmi specifici, in centri di terzo livello con adeguata esperienza, e la disponibilità operativa di "team" dedicati, anche multidisciplinari.
Ma ancora oggi quando parliamo di infarto miocardio acuto, ed ancor più nello STEMI complicato da shock cardiogeno non legato a complicanze meccaniche, è il fattore "tempo", sia in termini decisionali che operativi e logistici, l'elemento strategico più determinante nel potere migliorare ancora la sopravvivenza di questi pazienti.

Terapia farmacologica dello STEMI oltre gli antiaggreganti e gli antitrombotici
Il ß-bloccante ha perso parte della sua importanza in epoca di riperfusione meccanica ed ha un ruolo ed indicazioni differenti in fase acuta o in prevenzione secondaria. Secondo le più recenti linee guida, la sua somministrazione precoce ev ha un'indicazione di classe IIb A, dunque non è più obbligatoria La maggior parte dei trial sui ß-bloccanti nell'IMA sono stati condotti in epoca pre-angioplastica e la loro efficacia nei pazienti sottoposti ad angioplastica primaria non è stata ancora chiaramente definita
L'importanza dell'ACE-inibitore nello STEMI è chiaramente stabilita, sia in fase acuta che in prevenzione secondaria, in particolare nei pazienti ad alto rischio. Infatti, secondo le linee guida la somministrazione precoce (nelle prime 24 ore) ha un'indicazione di classe I A nei pazienti ad alto rischio (quelli con IMA anteriore e disfunzione ventricolare sinistra con o senza segni clinici di scompenso) e IIa A nei pazienti a più basso rischio (quelli con IMA inferiore e/o normale funzione sistolica del ventricolo sinistro). Diversi studi, come il GISSI-3 e l'ISIS-4, hanno dimostrato che l'ACE-inibitore iniziato nelle prime 24 ore riduce in maniera significativa la mortalità durante le successive 4-6 settimane
Le statine nello STEMI hanno un'indicazione di classe I A in tutti i pazienti, salvo controindicazioni, indipendentemente dai livelli sierici di colesterolo, da iniziare il prima possibile e con un target di LDL<100 mg/dl (<80 mg/dl nei pazienti a più alto rischio). La più recente controversia sul trattamento con statine nello STEMI riguarda il dosaggio: in una recente metanalisi di 7 trial randomizzati sono stati valutati 29.395 pazienti con coronaropatia: rispetto alla terapia a dosaggio standard, quella con alta dose si è dimostrata più efficace nel ridurre i livelli di colesterolo LDL, il rischio di infarto miocardico e stroke e la mortalità per ogni causa nei pazienti con sindrome coronarica acuta ma non nei pazienti con coronaropatia cronica stabile. Numerosi studi hanno dimostrato come iniziare questa terapia durante l'ospedalizzazione, non solo migliori di per sé la prognosi del paziente, ma rappresenti anche la via migliore per incrementare l'aderenza terapeutica successiva
Una terapia sempre poco considerata nella pratica clinica è quella volta al controllo glicemico. Pur riconoscendo nell'iperglicemia e nel diabete mellito un elemento prognostico sfavorevole in termini di outcome, il controllo glicemico raramente viene attuato in fase acuta. La letteratura non aiuta ad orientarsi e le Linee Guida sia europee che americane si limitano ad indicazioni diventate generiche dopo la pubblicazione dello studio NICE-SUGAR per cui si pone a 180mg/dl il limite di glicemia tollerato in corso di SCA. Questo riflette l'assenza di studi dedicati (DIGAMI a parte, ma datati come impostazione) ai pazienti con infarto acuto. Nella nostra esperienza la somministrazione di insulina ev in continuo (con protocolli dinamici adattati, o a tamponamento della glicemia rilevata) con un target glicemico compreso tra 120 e 150 mg/dl non si è associata ad episodi di ipoglicemia (considerata come la principale causa della peggior prognosi nei casi trattati intensivamente). In tutti i nostri pazienti viene comunque somministrato glucosio ev con lo scopo di garantire, nella fase di maggior stress, un minimo apporto calorico per le funzioni vitali dell'organismo.

Ringrazio M. Arieti, C. Cuccia, C. Indolfi, A. Mafrici, J. Origlia, A. Parma, F. Saia, R. Valenti, M. Verde e R. Vergara per il contributo dato alla sezione "SCA-STEMI: logistica, farmaci, stent: quali combinazioni usare?" di "Verso Intercardio 2012: cio' che le linee guida non dicono".






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