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ANGINA CRONICA,

SINDROMI CORONARICHE ACUTE

 

● L ‘Angina cronica  dell’Anziano e del Grande Anziano

 

● La terapia dell’Angina Cronica dell’Anziano

e del Grande Anziano: il ruolo della Ranolazina

 

● Le SCA  con ST non elevato

nell’ Anziano e nel Grande Anziano

 

● Le SCA  con ST  elevato

nell’ Anziano e nel Grande Anziano

 

 

Angina cronica nell’anziano e nel grande anziano

 

Osvaldo Silvestri

U.O. di Cardiologia Riabilitativa

 A. O. R.N.“A. Cardarelli”   Napoli

 

La prevalenza dell’angina pectoris  aumenta con l’età in entrambi i sessi.

L’angina prevale nelle donne di mezza età probabilmente per  la prevalenza di una malattia coronarica funzionale mentre il contrario si verifica negli anziani.

Tra il 2001 e il 2008 negli Stati Uniti la prevalenza fu leggermente più alta nelle donne che negli uomini di età compresa tra i 35 e i 55 anni ma fu più alta negli uomini rispetto alle donne tra i 65 e gli 85 anni.

 La malattia cardiovascolare è una condizione che è in aumento da qualsiasi punto di vista la si consideri. Osservando in proiezione la situazione demografica dei prossimi decenni vedremo diminuire costantemente la popolazione in età lavorativa  mentre le persone anziane rappresenteranno una quota crescente della popolazione totale e ancora di più quelle molto anziane (>85 anni)

Un altro aspetto dell’ invecchiamento della popolazione anziana in sé è rappresentato dall’aumento progressivo del numero delle persone molto anziane (>85 anni) a un ritmo più veloce di qualsiasi altra fascia d'età della popolazione.

In previsione, dal 2005 al 2030,  mentre gli anziani aumenteranno del 105 %, i grandi anziani aumenteranno del 150% e i super anziani addirittura del 400%.

Quindi il principale fattore di rischio della malattia CV è senz’altro l’età per effetto della qualeaumenterà l’incidenza e la prevalenza della malattia CV cronica, aumenterà la sopravvivenza agli eventi acuti e ci sarà un numero sempre maggiore di pazienti con malattia CV cronica.

Nell’ ambito dell’angina cronica stabile vi è un range molto vario di mortalità CV annua legato alle diverse espressioni di questa sindrome  in pazienti con o senza cardiopatia ischemica nota, con o senza sintomatologia, con malattia stabile dall’inizio o stabilizzata dopo una fase di acuzie.

La mortalità a 1 anno è del 2,81 %. Un paziente su sette in un anno realizza un evento cardiovascolare maggiore o va incontro ad un ricovero ospedaliero.

Di fronte ad un paziente con angina cronica stabile pertanto è essenziale la stratificazione del riischio che si basa sulla valutazione clinica, sulla risposta ai test provocativi, sulla quantificazione della funzione ventricolare sinistra e sul grado di severità della malattia coronarica.

Per quanto concerne la valutazione clinica  nel paziente con angina stabile le variabili che si sono dimostrate all’analisi multivariata predittive di prognosi sfavorevole in termini di mortalità cardiovascolare sono risultate essere il colesterolo sierico, la pressione arteriosa, , il fumo e il diabete. Invece nel paziente con angina stabile dopo un pregresso IMA solo il diabete è risultato essere un predittore indipendente di morte cardiovascolare.

Come dimostrato dai dati del FraminghamStudy molti dei fattori di rischio per malattia CV per i soggetti < 65 anni rimangono invariati se ci si riferisce a soggetti più anziani. Tuttavia si colgono alcune differenze in questa popolazione. Sebbene i valori di colesterolo totale perdano il loro valore predittivo i valori di HDL e LDL restituiscono ai lipidi la loro importanza nel predire negli anziani gli eventi cardiovascolari. Mentre l’influenza del fumo di sigaretta sulle malattie CV diminuisce con l’avanzare dell’età rimane tuttavia un importante fattore di rischio per la claudicatiointermittens e per lo stroke sia nell’uomo che nella donna. Il diabete rimane un importante fattore di rischio con l’avanzare dell’età. Un’elevata PAS che continua ad aumentare con l’avanzare dell’età è un  potente fattore di rischio indipendentemente dai valori di PAD. La capacità vitale che diminuisce con l’età, peggiorata dal fumo di sigaretta è un importante predittore di scompenso cardiaco. L’evidenza ecgrafica di ipertrofia ventricolare sinistra è un altro importante fattore di rischio CV; infine  la riduzione della frazione di eiezione del ventricolo sx e un rapido incremento della FC a riposo (>84 b/min) rappresenta un aumentato rischio di malattie CV compresa la malattia coronarica, lo scompenso, la morte improvvisa.

L’angina è solitamente stimolata dall’esercizio fisico ma la ridotta capacità fisica legata all’età non consente ai pazienti anziani di aumentare la domando di O2 in misura sufficiente da evidenziare la presenza di una ridotta riserva coronarica.

Allo stesso modo un’improvvisa riduzione della capacità fisica come quella coseguente alle fratture o ai disturbi muscolo scheletrici da artrosi può causare l’apparente scomparsa di una preesistente angina. Un altro fattore confondente è la ridotta sensibilità al dolore nell’anziano così come l’alta prevalenza di alterazioni gastroesofagee. Ed infine vanno menzionate tutte quelle situazioni non legate alla malattia coronarica che posono provocare angina come la stenosi aortica, la cardiomiopatia ipertrofica, l’anemia, l’ipertiroidismo, l’ipertensione e lo scompenso cardiaco.

Quando si valutano contemporaneamente in senso prognostico variabili cliniche e variabili ergometriche il carico raggiunto all’acme dell’esercizio e le variazioni del tratto ST durante la prova da sforzo sono risultati i migliori predittori della sopravvivenza in rapporto al test da sforzo: la probabilità di sopravvivenza a 5 anni varia infatti dal 72% di quei pazienti che evidenziarono un sottoslivellamento del tratto ST≥ 1 mm al primo stadio o addirittura ad un carco lavorativo inferiore al 95% di sopravvivenza per quei pazienti che svilupparono un sottoslivellamento del tratto ST≤ 1 mm raggiungendo un carico lavorativo del 3 stadio e oltre.

La prova da sforzo secondo il protocollo Bruce e il Duke Tre admill Score dovrebbero costituire il primo test per la stratificazione del rischio in pazienti sintomatici per angina cronica stabile.

Con il crescere dell’età in misura maggiore nell’uomo ma anche nella donna aumenta la probabilità pre test della presenza di malattia coronarica.

I 2/3 dei pazienti hanno unDuke Tradmill Score che indica un rischio basso. Questi pazienti hanno una percentuale di sopravvivenza a 4 anni del 99% in terapia medica con una percentuale di mortalità annua  in media dello 0,25%.

Invece, sul fronte opposto, i pazienti che hanno uno score indicativo di un rischio alto hanno una probabilità di sopravvivenza a 4 anni  solo del 79% con una percentuale di mortalità annua  in media del 5%.

La percentuale di mortalità annua > 3% identifica i pazienti la cui prognosi potrebbe essere migliorata  eseguendo un’angiografia coronarica e successivamente un’eventuale rivascolarizzazione.

I pazienti di età > 75 a raggiungono all’esercizio un carico di lavoro più basso per il decondizionamento, per problemi muscolo-scheletrici, per problemi ortopedici, neurologi o per vasculopatie periferiche. Molti anziani sono inabili a raggiungere un carico lavorativo di sufficiente durata o il carico lavorativo raggiunto è insufficiente per indurre ischemia.

Lo Score però non funziona bene nei pazienti > 75 anni a causa dell’alta prevalenza della CAD, del grado spesso severo della CAD e della minore tolleranza allo sforzo.

Il Duke Score inoltre  in questi pazienti non è capace di predire la morte cardiaca.

Nella popolazione più giovane invece il Duke Risk Score  si rivelò altamente predittivo per la mortalità.

Il valore clinico di un test prognostico non invasivo è quello di stratificare il rischio di eventi di una popolazione identificando i pazienti a basso rischio che possono continuare il trattamento medico rispetto ai pazienti ad alto rischio che devono essere avviati ad una strategia terapeutica più aggressiva.

Circa l’importanza dei test di imaging,l’ aggiunta di variabili ottenute mediante eco-stress fisico, in particolar modo le variazioni del LVESV e del WMSI, hanno migliorato la capacità di prevedere eventi cardiaci  e la mortalità.

 All’analisi multivariata i maggiori predittori di morte cardiaca si sono rivelati l’età, la presenza do onde Q all’ECG di base, il carico lavorativo e la FE con l’esercizio.

Lo stress-eco, attraverso la sua migliore capacità di localizzare e quantificare l’ischemia, possiede dunque un valore incrementale accertato rispetto alla clinica e al test da sforzo nel predire gli eventi cardiovascolari nell’anziano con angina stabile.

La prevalenza della disfunzione sistolica aumenta con l’età.

Anche la disfunzione diastolica aumenta progressivamente con l’età e l’incremento della severità della disfunzione sia sistolica che diastolica è predittivo di mortalità per tutte le cause.

Si è visto che più del 50% dei pazienti molto anziani ha una disfunzione sistolica o una disfunzione diastolica moderato severa.

La funzione ventricolare sinistra è il più importante  fattore predittivo di sopravvivenza a lungo termine nei pazienti con angina stabile. I dati di follow-up a lungo termine dello studio CASS avevano evidenziato che i pazienti con disfunzione ventricolare sinistra e severa coronaropatia mostravano la prognosi peggiore in termini di sopravvivenza.

La sopravvivenza a 5 anni si riduce mano a mano che peggiora la funzione contrattile del ventricolo sinistro e la prognosi legata ai tre diversi livelli di funzione contrattile del ventricolo sinistro  (normale, moderatamente disfunzionate e severamente compromessa) peggiora ulteriormente in rapporto al numero dei vasi coronarici colpiti.

I determinanti della prognosi del paziente con angina stabile sono la pregressa storia di coronaropatia, la tolleranza allo sforzo, la disfunzione ventricolare sinistra di base, l’area del miocardio a rischio, l’estensione della coronaropatia.

Molte linee di evidenza indicano che la rivascolarizzazione migliora la prognosi ma solo nei pazienti ad alto rischio. Solo i pazienti  con documentata ischemia miocardica coinvolgente > 10% del miocardio del ventricolo sx hanno una più bassa mortalità CV e per tutte le cause quando viene effettuata una rivascolarizzazione.

Al contrario la rivascolarizzazione può aumentare la mortalità nei pazienti con ischemia coinvolgente < 10% del miocardio.

I pazienti in terapia medica, con un’area di ischemia coinvolgente > 10% del miocardio hanno un aumento del rischio annuo di morte CV del > 2% e per tutte le cause > 3%. Pertanto i pazienti ad alto rischio sono quelli caratterizzati da una vasta area di ischemia  nei test di imaging  e con una mortalità annuale per tutte le cause > 3%.

La mortalità si riduce del 79.6% nei pazienti con vitalità trattati chirurgicamente. Rispetto a quelli trattati in terapia medica. Nei pazienti senza vitalità non c’è differenza statisticamente significativa con la rivascolarizzazione rispetto alla terapia medica.

Se osserviamo gli stessi dati in rapporto al trattamento del paziente notiamo che la mortalità dei rivascolarizzati con vitalità è più bassa che nei non vitali ma la mortalità dei pazienti  con vitalità in terapia medica è molto più alta rispetto a quelli in cui la vitalità è assente.

Quindi vi è una fortissima correlazione tra la vitalità miocardica e una migliore sopravvivenza nei pazienti  con malattia coronarica e disfunzione ventricolare sinistra sottoposti a rivascolarizzazione.

I pazienti con  evidenza angiografica di alto rischio (tronco comune, parte prossimale della LAD  , malattia trivasale) che notoriamente si beneficiano della rivascolarizzazione hanno una percentuale annua di mortalità > 3% se trattati con terapia medica. Al contrario i pazienti con più basso livello di lesioni coronariche hanno una percentuale di mortalità annua < 3% in terapia medica e pertanto in essi la rivascolarizzazione non migliora la prognosi.

Dopo i 70 anni la prevalenza della CAD tende a diventare uguale nell’uomo e nella donna. È da sottolineare che con l’età aumenta l’interessamento dei tre vasi o del tronco comune.

L’obiettivo del trattamento in generale dell’angina cronica stabile è il rallentamento della progressione della malattia, la prevenzione degli eventi cardiovascolari e della mortalità, il miglioramento della sintomatologia e della qualità della vita.

Negli ultimi anni con la disponibilità dei nuovi presidi farmacologici la terapia medica dell’angina è stata oggetto di rinnovato interesse rivelando in molti pazienti un’efficacia del tutto sovrapponibile a quella della rivascolarizzazione coronarica nel determinare un miglioramento sia dei sintomi che della prognosi.

In questa direzione vanno i risultati dello studio COURAGE dove nei pazienti con terapia medica ottimizzata la procedura di PCI non ha determinato un miglioramento della prognosi cardiovascolare e gli iniziali benefici in termini di qualità della vita scomparivano dopo 36 mesi.

Gli autori del COURAGE hanno effettuato un’analisi post-hoc su 1381 pazienti anziani di età <65 anni( 60%) ( in media 56±6) e su 904 pazienti di età > 65 anni  (in media 72±5)(40%) affetti da angina cronica stabile. Lo scopo dello studio era quello di valutare l’efficacia della PCI quando veniva aggiunta alla terapia medica ottimizzata.

Nei pazienti>65 anni fu riscontrata innanzitutto un’incidenza di mortalità 2-3 volte più alta che nei pazienti <65 anni mentre l’incidenza di IMA, Stroke e di nuovi ricoveri per SCA erano sostanzialmente simili nei due gruppi d’età. Quindi non c’era evidenza che la PCI aggiunta alla OMT fosse migliore o peggiore rispetto alla sola OMT nel ridurre gli eventi clinici. Inoltre a distanza di 6 mesi di FU  la percentuale di pazienti più anziani trattata con PCI senza sintomi era sostanzialmente non differente rispetto a quella trattata con la sola OMT (80% vs 73%).

Nei pazienti con angina cronica stabile la PCI sebbene attenui i sintomi anginosi in maniera più efficace a breve termine, non è in grado di prevenire gli eventi hard, come morte o IMA, o di migliorare la sintomatologia anginosa nel FU a lungo termine. Gli autori concludono pertanto che è difficile giustificare la PCI come iniziale strategia di trattamento nella maggior parte dei pazienti anziani con una malattia coronarica stabile quando la OMT da sola offre gli stessi risultati in termini di eventi che si ottengono se ad essa si aggiunge la PCI.

Trattare le lesioni angiograficamente critiche ma non ischemizzanti è inutile e spesso dannoso.

Lo studio FAME ha dimostrato che il calcolo della FFR durante la PCI riduce ad 1 anno la percentuale di morte, infarto, re-PCI e CABG del 30% circa e la percentuale di morte e infarto del 35% circa. Questo consente una riduzione dei costi e dei tempi della procedura, riduce il numero degli stents e la quantità di mezzo di contrasto adoperata. Il vantaggio in tal senso è ancora maggiore per gli anziani.

Lo studio DEFER ha dimostrato che la PCI di una stenosi funzionalmente non significativa, quella con una FFR >0,75, non è utile dal punto di vista prognostico né dal punto di vista della sintomatologia e pertanto la PCI di queste stenosi andrebbe evitata.

Le lesioni ad altissimo rischio di morte o IM sono quelle funzionalmente significative con un FFR< 0,75 che anche se trattate  con PCI hanno una probabilità a 5 anni 5 volte più grande di causare eventi come morte o IMA rispetto alle stenosi di uguale severità angiografica ma non associate ad ischemia reversibile e trattate con terapia medica. In definitiva dunque il più importante fattore prognostico con cardiopatia ischemica è la presenza e l’estensione dell’ischemia inducibile.

Lo studio RITA2  ha mostrato che nei pazienti anziani  con angina stabile, a basso rischio, la mortalità si aggira intorno all’8,2 % e che la strategia invasiva mediante PCI non cambia il rischio di morte o infarto rispetto ai pazienti in terapia medica ma migliora i sintomi e la tolleranza allo sforzo.

I risultati a lungo termine che hanno confrontato la rivascolarizzazione mediante PCI con il Bypass aortocoronarico in pazienti anziani tra 50 e 70 a hanno dimostrato che la PCI è più efficace nel ridurre i sintomi dell’angina ma che non vi erano differenze nella sopravvivenza a lungo termine tra le 2 strategie di rivascolarizzazione.

Questo studio indica che nei grandi anziani (> 80 anni) con angina cronica la terapia invasiva e la terapia medica hanno la stessa prognosi in termini di sopravvivenza. La mortalità è aumentata in termini percentuali nei pazienti con >80 anni con precedenti di scompenso cardiaco, con una ridotta funzione contrattile del ventricolo sinistro, con 2 o più comorbidità, in assenza di rivascolarizzazione nel primo anno.

Il beneficio nel miglioramento della sintomatologia anginosa è mantenuto con entrambe le strategie ma il vantaggio precoce fornito dalla strategia invasiva viene perso con il tempo.

La strategia medica, considerando complessivamente l’intero studio, mostra un numero maggiore di eventi avversi non fatali costituiti soprattutto da ricoveri ospedalieri e rivascolarizzazioni tardive.

Devono essere sicuramente rivascolarizzati:

Pazienti con angina moderata-severa (CCS II-IV) con test non invasivi positivi e non responsivi alla terapia medica ( daconsiderare la superiorità del CABG in caso di diabete, età > 65 anni, malattia di 3 vasi coronarici con o senza la compromissione del TC).

Eseguire una PCI in un paziente do 80 anni e più non è del tutto esente da rischi.

La mortalità è in media dell’1,1% ma ha mostrato una relazione lineare con l’età passando da uno 0,5% nei pazienti < 55 a a quasi il 5% per i pazienti >80 anni. La mortalità degli 80enni e circa tre volte più alta dei pazienti più giovani (3,8% vs 1,1%), fortemente influenzata dalle comorbidità.

Le altre complicanze intraospedaliere si verificarono da 1,5 a 3,5 volte più frequentemente negli 80enni (gli eventi combinati morte/IMA/CVA) così come l’IMA da solo, le CVA, l’insufficienza renale le perdite ematiche e le complicanze vascolari.

 I predittori di morte intraospedaliera degli 80enni sottoposti a PCI furono lo shock cardiogenico, l’IMA, una funzione contrattile del ventricolo sinistro< 35%, l’insufficienza renale, la prima PCI, l’età > 85 a. e il diabete mellito. Il rischio di eventi degli 80enni che sono sottoposti a PCI è da 2 a 4 volte più alto di quello dei pazienti più giovani ed è fortemente influenzato dalle comorbidità.

Nello studio di confronto della sopravvivenza  di pazienti di ottanta anni ed oltre  con malattia coronarica cronica sottoposti a rivascolarizzazione con PTCA vs CABG la mortalità a breve termine (quella intraospedaliera)  fu del 3,0% per la PCI e del 5,9% per il CABG e risultati simili si ottennero quando i pazienti furono stratificati in base al numero  dei vasi coronarici compromessi.

Nei primi 6 mesi la percentuale di sopravvivenza fu maggiore per i pazienti sottoposti a PCI rispetto a quelli sottoposti a CABG.

Ma dopo 6 mesi e fino a 8 anni la sopravvivenza dopo CABG si rivelò maggiore rispetto a quella dopo PCI con risultati analoghi nei pazienti con malattia di 2 e di 3 vasi. Ciò può essere dovuto al fatto che la rivascolarizzazione con CAB è più completa mentre la strategia basata sulla PCI è indirizzata prevalentemente alla culpritlesion.

Pertanto se il CABG è associato con una maggiore incidenza di mortalità intraospedaliera rispetto alla PCI, la sopravvivenza  a lungo termine è maggiore per coloro che superano il primo periodo. L’età da sola pertanto non deve rappresentare un deterrente per il trattamento aggressivo della malattia coronarica.

Nel paziente con cardiopatia ischemica stabile:

       La rivascolarizzazione migliora temporaneamente i sintomi ( se sono presenti)

       Il solo trattamento farmacologico ottimale è da preferire se la terapia medica è stata ottimizzata e se l’anatomia coronarica è nota

       La rivascolarizzazione può ridurre i MACE se l’area di ischemia inducibile è > 10% e se la EF è molto ridotta e quindi si beneficia della riduzione dell’ischemia

       Il trattamento farmacologico ottimale va sempre garantito anche al paziente rivascolarizzato.