L RAPPORTO MEDICO – INFERMIERE

IL PUNTO DI VISTA DELL’INFERMIERE

Elisabetta Simonetti

  Università Politecnica delle Marche.

Posizione Organizzativa “Risk Management e Qualità”

A. O.U. Ospedali Riuniti di Ancona

 

 

Con questi infermieri […]

eccome se il medico colloquiava […]

L’infermiere era orgoglioso di collaborare,

 si sentiva trattato alla pari

 e di più era stimolato all’acutezza,

alla fiducia in se stesso.

Se con altri infermieri non c’era colloquio

 era perché con questi non ne valeva la pena,

 gente che non osservava, non aveva disposizione,

 buona solo a bassi servizi,

 per custodire, pulire, impedire,

 non per partecipare,

essere a fianco a un’anima umana

 travolta dalla misteriosa malattia.

M. Tobino, Gli ultimi giorni di Magliano

 

Introduzione

La vera natura dell’assistenza sanitaria comporta l’instaurarsi di relazioni collaborative tra gli operatori, i pazienti e le loro famiglie, in quanto nessuna singola disciplina o specializzazione risponde da sola ai bisogni di salute di un individuo. La varietà dei fattori che influenzano lo stato di salute delle persone, la crescente complessità degli interventi sanitari e la maggiore prevalenza di patologie croniche, articolate e multiple in pazienti mediamente più anziani richiedono l’intervento di professionisti capaci di lavorare insieme in maniera comprensiva e dinamica.

“Collaborare” vuol dire lavorare tutti i giorni insieme ad altri professionisti per ottenere un beneficio condiviso e raggiungere un obiettivo comune.

In Sanità questo concetto è quasi del tutto inseparabile da quello di miglioramento e non può essere interpretato solamente in termini di altruismo, ma piuttosto come un modo di raggiungere obiettivi comuni in un sistema di interdipendenze.

Data la natura dell’assistenza sanitaria si potrebbe pensare che la collaborazione sia un elemento centrale per ogni professionista coinvolto; invece quella che viviamo è una realtà costituita da frequenti fallimenti a causa di incomprensioni, contrasti e conflitti.

Questo basso livello di collaborazione è ulteriormente peggiorato dall’attuale ambiente sanitario in cui l’urgenza, la competizione, le pressioni verso maggiore produttività e minori costi forniscono sempre meno opportunità per i professionisti di incontrarsi su un comune terreno clinico.[1]

evoluzione del rapporto medico-infermiere

I medici e gli infermieri rappresentano il più grande gruppo di professionisti sanitari che quotidianamente affrontano insieme problemi complessi e di non facile soluzione. Tuttavia la comunicazione tra le due professioni non sempre scorre correttamente.

Collaborazione e comunicazione rappresentano elementi fondamentali per creare un’efficace relazione medico-infermiere che potrebbe essere definita come “una relazione dove le due figure professionali lavorano insieme collaborando per raggiungere una soluzione condivisa di un problema, gestendo in maniera efficace lo scambio di informazioni, il processo decisionale, l’attribuzione di responsabilità, le relazioni personali, i conflitti, con fiducia e rispetto reciproci”.

E’ stato dimostrato che un’efficace relazione collaborativa tra medici e infermieri è in grado di assicurare migliori risultati in termini di salute per gli assistiti (in particolare per i pazienti più vulnerabili), maggiore efficienza, maggior soddisfazione professionale per gli operatori e riduzione dello stress lavorativo.[i]

Il rapporto tra medico e infermiere è al centro di un dibattito ancora dominato dagli aspetti negativi di questa relazione: di conseguenza si riduce lo sviluppo di approcci veramente innovativi per una maggiore comprensione e facilitazione della comunicazione. Spesso non viene ancora considerato, inoltre, che infermieri e medici raramente possiedono lo stesso punto di vista su che cosa comporti una interazione collaborativa, né possiedono una percezione condivisa dei rispettivi ruoli nell’assistenza sanitaria.

La gran parte degli studi sull’argomento, provenienti dalla comunità infermieristica, si concentra sulle modalità di comunicazione inefficace e fornisce strumenti per sviluppare le capacità comunicative degli infermieri. Gli studi che invece provengono dalla comunità medica pongono l’attenzione verso gli aspetti medico-legali e le aspettative dei medici riguardo la trasmissione di informazioni sulla salute del paziente.

In questo dibattito i punti di vista e il parere dei pazienti sono clamorosamente assenti, anche perché non è diffusa la percezione di quanto la relazione medico-infermiere possa influenzare gli esiti dell’assistenza sanitaria, al di fuori dei casi portati all’attenzione pubblica perché hanno avuto conseguenze di tipo legale.

Tutto ciò può spiegare anche la disattenzione delle strutture gestionali che pure potrebbero giocare un ruolo fondamentale in termini di formazione, facilitazione e valorizzazione delle capacità collaborative e comunicative dei medici e degli infermieri.

In passato si sosteneva che la relazione tra le due discipline fosse di tipo gerarchico con supremazia del medico; gli infermieri potevano dare consigli e partecipare al processo decisionale, ma non in maniera esplicita, influenzavano in maniera indiretta il comportamento del medico, senza contrastare la sua posizione dominante e le gerarchie esistenti che dipingevano l’infermiere come “servitore” del medico.

La formazione di ambedue le figure professionali veniva ritenuta la causa principale del problema perché delineava in tal modo le future attitudini di medici e infermieri. Il fatto poi che la professione infermieristica fosse in gran parte svolta da donne e che la medicina fosse per lo più un ambito maschile ha rinforzato negli anni questa dinamica, insieme all’atteggiamento dei pazienti, che hanno continuato a ritenere il medico come il massimo “custode” della loro salute.

Nel tempo però il ruolo dell’infermiere si è espanso, specializzato e formalizzato con il supporto di una formazione di tipo universitario, consentendo alle nuove figure professionali di diventare più autonome nei rispettivi ambiti di competenza.

Le differenze di genere si sono ridotte con l’ingresso di molte donne nella professione medica e di più uomini in quella infermieristica. Inoltre si è verificato nell’opinione pubblica un certo deterioramento dell’immagine dei medici e un maggiore interesse verso l’esito e la sicurezza degli interventi sanitari.

Tutti questi fattori non hanno però prodotto fondamentali cambiamenti nella relazione medico-infermiere; ancora oggi molti medici continuano a percepire ogni tentativo degli infermieri di guadagnare autonomia come una possibile invasione di campo, una minaccia per il proprio status, un possibile rischio per la sicurezza del paziente e per la qualità dell’assistenza.

Dal punto di vista infermieristico, sebbene esista un maggiore desiderio di migliorare il processo comunicativo, non viene considerata fondamentale però una ridistribuzione del potere, così lo status elevato e la posizione dominante dei medici rappresenta ancora una norma diffusamente accettata. Tutto questo riduce la possibilità di sviluppare modelli comunicativi di tipo veramente paritario.[2]

 

Dominanza medica e processo di professionalizzazione

Il concetto di dominanza medica è stato analizzato, nell’ambito della sociologia, da alcuni autori, fra cui Freidson e Tousijn. La dominanza medica è definita come l’elemento centrale della suddivisione del lavoro in sanità, che vede come “principale” la professione medica e “secondarie” le altre professioni sanitarie, che subiscono in qualche modo il controllo della prima. Fra di loro vi è un rapporto di dipendenza o indipendenza funzionale, a seconda del tipo di rapporto, e delle interrelazioni nella pratica professionale.

Queste ultime procedono su traiettorie di professionalizzazione, ricercando propri spazi di autonomia, ma devono, in ogni caso, “fare i conti” con l’autorità e il prestigio della figura medica.

Questa teorizzazione è probabilmente alla base dell’aggettivo “paramedico” utilizzato per diverso tempo per riferirsi alle professioni sanitarie non mediche e criticato per la sua aspecificità e richiamo alla subordinazione.

Il concetto di dominanza è in contrapposizione con quello di professionalizzazione o meglio la tendenza al professionalismo delle professioni dominate.

In altri termini, le professioni sanitarie tentano di percorrere dei processi di professionalizzazione per arrivare a delimitare i propri ambiti di autonomia e quindi di autodefinire propri meccanismi di controllo, cioè di sviluppare il professionalismo. Con questo termine Freidson intende la capacità di un gruppo professionale di avere un controllo occupazionale del proprio lavoro, cioè il controllo che le professioni esercitano su se stesse.

L’evoluzione normativa è uno degli elementi del processo di professionalizzazione, che, pur con le critiche sollevate da alcuni autori nell’ambito della letteratura sociologica rispetto alle modalità di definire tale processo, le professioni sanitarie stanno percorrendo, mettendo in discussione anche la solidità della dominanza medica.

Il concetto di dominanza medica è senz’altro in un momento di evoluzione, forse di involuzione, non solo per la spinta delle professioni sanitarie, ma anche per l’influenza della maggiore consapevolezza dei pazienti e della necessità delle organizzazioni sanitarie di razionalizzare i costi e rivedere i propri processi produttivi, elementi che limitano la discrezionalità del medico.

Sicuramente le professioni sanitarie, supportate da nuovi istituti giuridici, influiscono sulla suddivisione del potere e creano nuovi equilibri.[3], [4]

analisi storico-deontologica del rapporto medico – infermiere

Il ruolo dell’infermiere si è evoluto, le sue responsabilità sono accresciute e si sono anche modificati i rapporti con le altre professioni sanitarie, in particolare con i medici.

Queste considerazioni poggiano evidentemente sul presupposto che il nursing sia inteso come una “professione”, ossia un’attività che si definisca a partire da uno specifico bagaglio di conoscenze teoriche e di capacità operative. In effetti il nursing non si svolge in una pura e semplice attività esecutiva di scelte altrui e di pratiche predefinite; esso comporta anche una capacità e un impegno di conoscenza e di discernimento delle diverse situazioni e, entro determinati limiti, un modo di essere e di agire autonomo e creativo e, di conseguenza, responsabile.[5]

In passato, le scuole convitto all’interno delle quali si svolgeva il percorso formativo delle infermiere e gestite da personale religioso, hanno sostenuto per decenni un ideale ben definito della professione; infatti, non formavano solo delle professioniste con specifiche competenze e conoscenze, ma aspiravano in qualche modo a forgiare il carattere delle allieve secondo una pedagogia che poneva come valore fondante l’obbedienza e il rispetto dell’autorità prevalentemente rappresentata dal medico.

La produzione di un codice deontologico da parte delle infermiere è un fatto storicamente recente: è del 1950 il primo codice emanato dalle infermiere americane e del 1960 quello prodotto dalle infermiere italiane. Un aspetto che emerge nel primo codice deontologico è l’adesione delle infermiere italiane a una visione paternalistica del rapporto con il paziente che ha connotato per secoli l’esercizio della professione medica; a sostegno di questo modello culturale, infatti, all’art. 6 del codice del 1960 si afferma che le infermiere “pongono i rapporti con i medici su un piano di leale collaborazione eseguendo scrupolosamente le prescrizioni terapeutiche e sostenendo nel malato la fiducia verso i medici e verso ogni altro personale sanitario”.

D’altra parte in quegli anni la subalternità al medico è sancita per legge nel nostro Paese, infatti nel primo mansionario[ii] che rimarrà valido fino al 1974 si dichiara che anche l’assistenza all’infermo è alle dipendenze del medico.

Nel codice del 1960, risulta inoltre interessante il riferimento all’abbigliamento dell’infermiere: “Indossa la divisa con dignità”. Le parole a leggerle attentamente hanno un potere evocativo forte, nelle parole si sedimenta la storia, il passato, esse possono dischiudere un mondo, rivelando la collocazione dell’uomo nel mondo.

Il significato della parola divisa riportata nel vocabolario Devoto-Oli è “veste, livrea, uniforme”, non contemplando il sinonimo abbigliamento da lavoro. Da notare inoltre che l’espressione “divisa” in passato come oggi, si usa per gli infermieri ma non per i medici i quali indossano il camice.

Se si riflette sulla parola “divisa” si coglie che essa, in quanto livrea, era indossata in passato dalla servitù e, in quanto uniforme, richiama l’abbigliamento militare. Entrambe queste accezioni della parola divisa rispecchiano fedelmente il contesto che circondava l’infermiera: l’ambiente ospedaliero, qual era in passato, con rapporti improntati a una rigida gerarchia nella quale l’infermiera occupava il gradino più in basso.

Negli anni settanta le leggi che regolamentano la professione infermieristica introducono delle novità di rilievo: viene esteso il livello di scolarità per accedere alle Scuole per infermieri professionali, la durata del periodo di formazione è portata a tre anni e con la ratifica dell’accordo  di Strasburgo la formazione infermieristica si adegua agli standard europei per i contenuti e l’organizzazione dei percorsi formativi. Nel 1974 un nuovo mansionario[iii] va a sostituire quello vecchio in uso dal 1940 che, pur riconoscendo delle responsabilità all’infermiere, non si discosta da un’immagine della professione funzionale alla figura del medico e limitata nel suo agire da un numero preciso di compiti che può svolgere. Da un punto di vista organizzativo la dipendenza dal medico è ancora affermata in modo chiaro perché i piani di lavoro, per esempio, prima di essere attuati devono avere l’approvazione dei superiori.

Nel 1977 gli infermieri italiani rivedono il loro Codice: esso presenta degli elementi innovativi che riflettono alcuni cambiamenti che hanno investito in quegli anni la società italiana. Tuttavia, persistono i valori religiosi che tradizionalmente hanno connotato la professione.

A partire dai primi anni novanta la formazione infermieristica passa a livello universitario e questo passaggio ha delle ricadute non solo di status e di immagine per la professione, ma muta profondamente il rapporto tra istituzione formativa e discente. Questi non può più essere considerato un allievo, parola in cui era implicita quell’idea della vecchia formazione di forgiare e modellare anche il carattere degli infermieri, ma è uno studente cioè un soggetto attivo nel suo percorso formativo. Dall’approvazione del decreto ministeriale 739/94 [iv] la professione infermieristica, quanto meno a livello normativo, inizia un percorso di radicale rinnovamento che culminerà in alcuni documenti legislativi che avvieranno davvero una rivoluzione copernicana nella storia della professione in Italia. Da questo punto di vista la legge 42/99 [v] costituisce una sorta di pietra miliare nel percorso di professionalizzazione dell’infermiere, poichè cancella definitivamente la condizione di ancillarità e di marginalità cui erano costretti gli infermieri abolendo quell’aggettivo ausiliario dalla definizione delle professioni sanitarie non mediche. Questa legge fa  tabula rasa di quella cultura mansionaristica che costringeva come in una gabbia gli infermieri, ponendoli quasi in una condizione di minorità mentale, come se essi non potessero essere a tutti gli effetti dei professionisti pensanti, capaci di valutare, discernere, decidere responsabilmente e con margini di discrezionalità come si riconosce a ogni vero professionista.

Nel codice deontologico del 1999 per la prima volta trova una chiara formulazione il valore della centralità della persona assistita; il codice si differenzia da quelli precedenti per i contenuti che esprimono una nuova sensibilità etica, coerente con un modello culturale che si lasciava definitivamente alle spalle il paternalismo che aveva guidato, da sempre, l’agire professionale dei medici e degli infermieri. Un altro elemento saliente di questo codice è l’affermazione della responsabilità dell’infermiere che si declina nelle norme in relazione ai vari ambiti in cui essa si esercita. La carica innovativa di questi due principi, la responsabilità dell’infermiere e la centralità della persona assistita, è tale che sono rimessi in discussione i rapporti gerarchici dominanti sino ad allora e la persona a cui l’infermiere deve rispondere in primis è proprio l’assistito. Rispetto all’approccio quasi autoritario del Codice del 1977, che metteva in discussione lo stesso concetto di libertà di coscienza dei professionisti, qui viene richiamato l’utilizzo del dialogo come strumento per conciliare visioni etiche diverse che implica la consapevolezza che non esiste un unico modello valoriale e che questo sia il migliore.

A dieci anni di distanza gli infermieri italiani rimettono mano al loro Codice e nel 2009 viene approvata la versione definitiva[6]; ancora una volta la revisione del Codice nasce dall’esigenza di recepire i mutamenti che hanno interessato sia la professione sia la società italiana. Per ciò che concerne la prima è d’obbligo ricordare l’emanazione della legge 251/2000 [vi] i cui primi tre articoli riguardano da vicino la professione infermieristica e ostetrica. Si parla chiaramente di autonomia professionale nello svolgimento delle attività dirette alla prevenzione, alla cura e alla salvaguardia della salute individuale e collettiva. Le indicazioni fornite da questa legge sulla metodologia e sull’organizzazione del lavoro lascia definitivamente alle spalle il modello organizzativo per compiti, eredità di una visione tayloristica del lavoro assistenziale, obsoleta e superata, che escludeva gli infermieri dai processi decisionali.[7]

Il nuovo Codice sembra dunque esprimere da un lato una più ferma consapevolezza del fatto che l’infermieristica costituisca una “professione”, mentre dall’altro sottolinea l’impegno a promuovere e realizzare il significato stesso dell’essere professione e in particolare dell’essere una professione sanitaria con una specifica mission. L’infermieristica non è più ancilla medicinae, ma possiede una sua identità e autonomia professionale [vii].

Nell’ambito clinico-assistenziale, l’individuazione del bene della persona assistita viene raggiunta, il più delle volte, attraverso un percorso di confronto intra e interprofessionale. La cura del paziente, infatti, è oggi sempre di più non tanto impresa del singolo professionista, quanto frutto della collaborazione di una intera équipe e soprattutto della collaborazione con il paziente stesso. L’autonomia professionale si rivela pertanto, per sua natura dinamica, acquisita nel “caso per caso” e aperta a un atteggiamento collaborativo [viii]. A questo proposito, l’art. 14 del nuovo codice afferma: L’infermiere riconosce che l’integrazione fra professionisti e l’integrazione interprofessionale sono modalità fondamentali per far fronte ai bisogni dell’assistito”.[8]

La relazione tra medico e infermiere richiama anche il concetto di responsabilità, termine tra i più ricorrenti nei dibattiti e nella risonanza pubblica dei problemi della sanità. E’ indispensabile distinguere la duplice prospettiva che esso sta a significare: una prospettive negativa più frequentemente ed immediatamente considerata, intesa come “rispondere a qualcuno”, che può essere il giudice, l’ordine professionale, i superiori gerarchici; certamente si giustifica che, in quest’ottica, il confronto rimanga sempre “teso”, senza migliorare. Ma esiste anche un significato positivo del termine “responsabilità”: un impegno a svolgere un ruolo costruttivo, la capacità di assumere, autonomamente, compiti che consentano una più efficace lotta contro le malattie e una più produttiva promozione della salute: un impegno fatto quindi di “responsabilità” e da persone “responsabili”, nell’auspicio che i professionisti sanitari possano ricercare le dimensioni positive e costruttive del loro comune impegno.

A tale proposito è interessante richiamare la definizione di salute proposta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità che ne sottolinea la triplice dimensione: fisica, psichica e relazionale. Questa precisazione suggerisce due rilievi: il primo è che la sanità non si identifica con l’operato dei medici e nemmeno con quello di tutti i diversi operatori sanitari. Tra gli operatori della salute ci sono anche gli operatori sociali e tutti coloro che lavorano perché questa triplice dimensione della salute possa essere adeguatamente considerata e promossa. La seconda osservazione è che non può esservi una valida promozione della dimensione relazionale della salute senza una buona relazione fra gli operatori sanitari, se questo aspetto viene trascurato, non sarà sufficiente preoccuparsi solo della salute degli altri.

Giustamente il codice deontologico degli infermieri sottolinea che il compito non è solo quello di curare ma anche quello di “prendersi cura”, un impegno quindi assai più ampio e impegnativo  non solo circoscritto alla dimensione individuale ma che considera quella relazionale e relazionata agli altri.

L’art. 3 del codice di deontologia medica del 1995 relativo ai “Compiti del medico” per la prima volta richiama la definizione di “salute” dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, con una visione doppiamente riduttiva: l’incomprensibile richiamo alla “accezione biologica” e il mancato riferimento al “benessere relazionale”.

La definizione di salute viene meglio riformulata nelle due edizioni successive del Codice, depurata dall’improprio riferimento alla “accezione biologica” nel testo del 1998, ma ancor oggi circoscritto alle sole dimensioni fisica e psichica, tralasciando dunque quella relazionale, non solo esplicitamente contenuta nella definizione della OMS nel 1946, ma ribadita anche nella dichiarazione dello stesso organismo ad Alma Ata nel 1978.

Non si vede perché ai medici non venga riconosciuto un ruolo importante, ovviamente non esclusivo, nel prendersi cura delle relazioni interpersonali, sia sotto il profilo degli interventi in situazioni di malattia che sotto quello della promozione di un maggior “benessere”.[9]

I riferimenti contenuti all’interno dei codici deontologici di medici ed infermieri rispetto al tema della relazione medico-infermiere sono pochi e generici. Il Codice dell’Ordine dei Medici di Torino emanato nel 1947 introduce per la prima volta un’apposita sezione dedicata ai “rapporti dei medici con altre categorie di sanitari”, anche se prevalgono i temi relativi a forme di collaborazione non corrette, compreso il “prestanomismo”; l’art. 82, pur nella sua formulazione in termini negativi, richiede che “il medico, nell’esercizio della sua professione, deve astenersi da qualunque atto che possa recare nocumento al decoro e agli interessi degli appartenenti ad altre categorie di sanitari e deve evitare di intromettersi comunque in atti di competenza delle altre professioni sanitarie rispettandone sempre la loro indipendenza”.

Il Codice del 1958, in ordine ai rapporti dei medici con altre categorie di sanitari, compie un’opportuna inversione in termini positivi delle indicazioni del Codice torinese: l’art. 73 precisa “il medico nell’esercizio della sua professione deve attenersi al principio del reciproco rispetto con le altre categorie sanitarie…”.

Nel testo del codice di deontologia medica del 1989 troviamo alcuni articoli in cui è evidente la preoccupazione esclusivamente di ordine negativo: l’art. 87 Capo V recita “il medico nei rapporti con le altre professioni e arti ausiliarie delle professioni sanitarie deve uniformare il proprio comportamento ai principi del reciproco rispetto, della corretta collaborazione e della salvaguardia delle specifiche competenze a tutela dell’interesse dei pazienti….”, l’art. 88 afferma che “il medico non deve esercitare la professione in collaborazione con altre categorie sanitarie quando ciò comporti accaparramento di clientela a proprio vantaggio o a vantaggio di chi esercita altra attività professionale o arte ausiliaria della professione sanitaria” e ancora l’art. 89  “è mancanza grave per il medico stabilire forme di accordo o di rapporto diretto o indiretto al fine di illecito vantaggio, in attività svolte da altre categorie sanitarie…”.

L’art. 68 del testo del 1998 introduce per la prima volta una prospettiva di collaborazione in termini positivi, non circoscritta cioè solo al divieto di determinati “accordi diretti o indiretti” che pure rimane, che viene espressa con la seguente formulazione: “nell’interesse del cittadino il medico deve intrattenere buoni rapporti di collaborazione con le altre professioni sanitarie, rispettandone le competenze professionali”.

Nel vigente Codice del 2006[10] le indicazioni deontologiche relative al “Rapporto con le altre professioni sanitarie” vengono proposte in termini più adeguati e costruttivi, in relazione alla comune finalità della tutela della salute: “il medico deve garantire la più ampia collaborazione e favorire la comunicazione tra tutti gli operatori coinvolti nel processo assistenziale, nel rispetto delle peculiari competenze professionali” (art. 66).

Prendendo invece, a riferimento il codice dell’infermiere si rileva che il testo è molto più avanzato rispetto a quello medico; una delle cause è rappresentata dal fatto che l’esigenza di una collaborazione è particolarmente sentita dagli infermieri, secondo uno spirito nuovo, non freddamente gerarchico. L’argomento è trattato all’art. 41 del codice deontologico del 2009 che afferma “l’infermiere collabora con i colleghi e gli altri operatori di cui riconosce e valorizza lo specifico apporto all’interno dell’équipe”; è evidente la constatazione che non esistono solo i rapporti tra i singoli ma che tutti devono fare riferimento ad un unico gruppo di lavoro e che in tale contesto anche l’infermiere assume e svolge un ruolo specifico.[11]

il dibattito sull’integrazione medico-infermieristica

La professione medica è la professione storica e tradizionale del panorama sanitario italiano e internazionale. Per secoli è stata l’unica professione sanitaria e di conseguenza, da un punto di vista giuridico, non vi era la necessità di regolamentarla se non nei puri aspetti di accesso alla professione e di repressione dell’abusivismo. Questa situazione è perdurata fino al ventesimo secolo.

In fondo attività medica e attività sanitaria coincidevano totalmente e la professione sanitaria era per definizione la professione medica; il principio di autorità e il principio gerarchico erano i modelli organizzativi dominanti e la legislazione assecondava tale logica organizzativa.

I processi di aziendalizzazione delle strutture sanitarie, la privatizzazione del rapporto di lavoro con la trasformazione dirigenziale delle figure mediche hanno mutato il quadro, soprattutto all’interno delle organizzazioni sanitarie.

Agli inizi degli anni novanta, in modo graduale ma assolutamente univoco, si avvia il processo di professionalizzazione di una molteplicità di professioni sanitarie cresciute in modo eccessivamente parcellizzato, che vengono regolamentate da una serie di atti normativi. Si iniziano a incontrare difficoltà nella definizione complessiva di tali professioni sanitarie diverse da quella medica. Appare infatti del tutto anacronistica l’espressione che appartiene alla sociologia del passato e non al mondo del diritto precedente e attuale, di definirle tout-court “paramediche”, così come la definizione “professioni sanitarie non mediche” non rende giustizia alle figure professionalizzate, che così si vedono definite in negativo anziché in positivo, finanche all’utilizzo dell’espressione priva di senso “parasanitari”.

I rapporti tra la professione medica e le professioni sanitarie dopo le riforme dell’esercizio professionale non sono più improntati al criterio gerarchico, oramai al tramonto, ma da un punto di vista normativo trovano la regolamentazione nelle norme sull’esercizio professionale, da un punto di vista deontologico nei rispettivi codici e dal punto di vista della regolamentazione della responsabilità dalla elaborazione dottrinale e giurisprudenziale del principio dell’affidamento all’interno della responsabilità di équipe.[12]

E’ però curioso che a distanza di oltre dieci anni da una riforma epocale delle professioni sanitarie ex ausiliarie, si discuta ancora di una “superiorità funzionale” del medico a cui, inevitabilmente, dovrebbe corrispondere una inferiorità funzionale dell’infermiere, con buona pace del rispetto della reciproca autonomia professionale. E’ sconfortante apprendere come la figura professionale dell’infermiere venga ancora tratteggiata, appunto, come “esecutore materiale” da una parte e il suo operato sottoposto ancora al vaglio dell’art.348 Cp in tema di abusivo esercizio di professione.

Occorre precisare come gli ambiti professionali all’interno dei quali si muovono medici e infermieri siano del tutto distinti e specifici, ognuno con una propria dignità professionale e scientifica, dove il curare e il prendersi cura devono essere prerogativa di professionisti differenti che, pur integrandosi tra loro, mantengono sempre inalterate le loro sfere di autonomia professionale. Ma se è il medico che cura, e l’infermiere non ha nessun interesse a occupare spazi di cura che spettano professionalmente e normativamente al medico, deve essere altrettanto riconosciuto all’infermiere lo spazio del prendersi cura del malato, convenendo che esiste uno specifico professionale dell’assistenza infermieristica, circa il quale il medico non può ingerirsi, semplicemente perché non ne ha le competenze. Se è indiscutibile che esistono atti medici esclusivi, o, forse più correttamente, atti sanitari praticabili in via esclusiva dal medico, deve riconoscersi come esistono atti sanitari praticabili in via esclusiva dagli infermieri, qualificabili atti infermieristici, circa i quali il medico non può intromettersi dal momento che sono di esclusiva competenza infermieristica.[13]

A tale proposito una distinzione da operare è relativa ai concetti di attività medica, e non genericamente di esercizio della medicina, e di attività del medico. La prima è chiara e postula una tutela anche penale, è un limite invalicabile da chi non è abilitato alla professione medica; diversa è l’attività che il medico svolge in talune organizzazioni per prassi e consuetudine. Non è detto che queste attività siano tutte “mediche” o solo mediche perché svolte da medici. Un’attività è riservata alla professione medica quando ha le caratteristiche dell’attività medica; il concetto di attività riservata confina con il concetto di attività monopolistica. Fino al 1974 erano attività riservate ai medici i prelievi ematici e la rilevazione della pressione arteriosa, oggi non più. Anzi, quest’ultima si connota come essere diventata un’attività sanitaria in mano anche alla popolazione, sempre più spesso chiamata a svolgere attività sanitaria di autodiagnosi o di autoanalisi. Queste attività un tempo riservate, hanno oggi perso il carattere della professionalità e sono diventate attività sanitarie non riservate, se poste in essere con determinati strumenti, ed effettuabili da chiunque.[14]

Il legislatore con la legge 251 del 2000 manifesta in maniera esplicita il principio dell’autonomia professionale delle varie professioni sanitarie, tra cui ovviamente quella infermieristica;  conseguentemente, l’autonomia professionale attribuita all’infermiere consente di escludere l’esistenza di un vincolo di subordinazione dell’infermiere stesso rispetto al medico.[15]

Il lavoro dell’infermiere non ha senso e legittimità se non nella misura in cui è coordinato e armonizzato con le attività degli altri che lavorano nello stesso ambiente e per lo stesso scopo.

Il lavoro in equipe contribuisce grandemente ad una migliore qualificazione delle cure prestate ai pazienti, rassicurandoli anche psicologicamente. “In realtà in una Divisione ospedaliera non basta che i rapporti fra medici e malati siano eccellenti; è altrettanto necessario che le relazioni umane tra i membri dell’équipes medica e infermieristica siano quelle desiderabili. Sono queste relazioni infatti che creano in ogni Divisione una atmosfera psicologica alla quale il malato è estremamente sensibile e che pertanto influenza – positivamente o negativamente a seconda delle sue caratteristiche – la cura del malato e l’evoluzione della malattia”.[16], [17]

Occorre riconoscere che l’aspetto relazionale e più in particolare la comunicazione interpersonale, sono sempre stati trascurati all’interno delle strutture sanitarie. Solo oggi ci si rende conto di come le abilità relazionali e comunicative costituiscano elementi essenziali del processo di cura. Il vecchio paradigma dominante in passato, ma tuttora riconoscibile, nelle relazioni umane nell’istituzione sanitaria, vedeva alcuni professionisti, soprattutto i medici, in una posizione gerarchica dominante e tutti gli altri operatori e i pazienti in una condizione di subordinazione. L’efficacia di un intervento terapeutico-assistenziale si misurava sull’adesione di questi a ordini impartiti dall’alto e a scelte prese da pochi senza prevedere alcun tipo di confronto con le persone interessate. Lo spiccato individualismo che ha prevalentemente caratterizzato l’esercizio della professione medica, non ha certo favorito un approccio all’apertura al dialogo con gli altri professionisti e alla considerazione delle opinioni altrui, in prima istanza quelle dell’assistito.

La condivisione delle informazioni, il riconoscimento dell’importanza dell’apporto che ogni professionista può dare per il miglioramento delle condizioni dell’assistito sono acquisizioni recenti, ma che devono ancora radicarsi nel sentire comune di molti operatori sanitari.

Attenti soprattutto agli aspetti tecnico-operativi della cura, si è spesso trascurata la dimensione interprofessionale, intesa come riconoscimento reciproco delle rispettive competenze su un piano di parità e non di verticalità.

Fa parte della quotidianità nella trasmissione delle “consegne” tra gli infermieri informare i colleghi su un eventuale aggravamento del paziente; meno comune è la condivisione tra medici e infermieri delle informazioni date al paziente sulla diagnosi o un’eventuale prognosi della malattia, dei contenuti dei colloqui con i parenti, importanti ai fini assistenziali. Là dove sarebbe opportuno una valutazione e un’analisi del caso, anche da un punto di vista etico da parte di tutto il gruppo curante sulla base di un confronto onesto e franco, al fine di discutere e condividere linee di comportamento, riappare invece il vecchio e superato cliché del medico che agisce individualmente e riconosce il suo rapporto con il paziente come qualcosa di personale e privilegiato rispetto a quello di altri professionisti. Il Codice Deontologico del 2009 richiama l’attenzione dell’infermiere sulla rilevanza che hanno le relazioni interprofessionali in due articoli, il già citato art. 14  e l’art. 23: L’infermiere riconosce il valore dell’informazione integrata multiprofessionale e si adopera affinchè l’assistito disponga di tutte le informazioni necessarie ai suoi bisogni di vita”.[18]

Infine, nella prospettiva assistenziale del “prendersi cura”, è interessante quanto richiamato dall’art. 22 “L’infermiere conosce il progetto diagnostico-terapeutico per le influenze che questo ha sul percorso assistenziale e sulla relazione con l’assistito” per l’influenza che una adeguata informazione assume ai fini dell’assistenza e della relazione con la persona. D’altra parte se qualcuno dell’équipe è escluso dalla conoscenza non può intervenire in modo qualitativamente sufficiente sulla persona.[19]

E’ evidente quindi che la qualità delle relazioni che intercorrono all’interno del gruppo curante hanno delle ricadute sull’assistenza. La letteratura relativa al “clima organizzativo” nei contesti di lavoro ha fatto emergere come questo sia una sorta di indicatore dello “stato di salute” del gruppo. Indicatore che fornisce informazioni sul benessere percepito dai professionisti e che a sua volta si ripercuote sulle relazioni con gli assistiti. Il miglioramento della comunicazione e il superamento delle logiche gerarchiche sono fattori i cui effetti incidono sul senso di partecipazione, sulla motivazione e in generale sulla soddisfazione lavorativa.[20]

In Italia, a seguito della presentazione della “Bozza di Accordo Stato Regioni recante l’ampliamento del profilo di competenze e delle responsabilità professionali dell’infermiere e dell’infermiere pediatrico” si è sviluppato un acceso dibattito tra le due famiglie professionali che, sia dal punto di vista di numerosità, sia dal punto di vista di responsabilità, rappresentano il nucleo centrale del Sistema Sanitario Nazionale. In particolare la componente medica ha espresso forte  preoccupazione sull’ampliamento delle competenze agli infermieri per le ricadute negative in termini di efficacia e sicurezza delle cure.[21]

A tale proposito, di recente, è apparso sul sito della prestigiosa rivista The New England Journal of Medicine un articolo[ix] estremamente interessante e straordinariamente attinente a quanto la professione infermieristica sta affrontando nel nostro Paese. Nello specifico, si esamina il problema di assicurare le cure primarie a un numero sempre crescente di persone con problemi di salute mediante l’adozione di modelli di assistenza che consentano agli infermieri di esercitare pienamente le loro conoscenze e competenze, talora ostacolate nei diversi Stati americani da disposizioni restrittive, spesso non giustificate da reali pericoli per la qualità e la sicurezza degli utenti. L’autrice richiama alcuni studi condotti per verificare appropriatezza, sicurezza e risultati del lavoro degli infermieri nei quali si dimostra che interventi di prevenzione, diagnosi e gestione di molte comuni malattie acute non complicate, come pure la gestione del dolore cronico o di malattie come il diabete, se affidati agli infermieri sono altrettanto sicuri ed efficaci quanto quelli erogati dai medici. Nonostante ciò, afferma Fairman, la tendenza è verso la restrizione delle competenze anche per la costante pressione delle associazioni mediche che vedono nell’espansione delle competenze infermieristiche una riduzione del loro ruolo, sebbene non vi sia evidenza alcuna che dimostri che negli Stati dove è già possibile agli infermieri agire competenze avanzate vi sia una riduzione o un danneggiamento dell’attività e dell’immagine del medico. Le risposte dei medici e delle organizzazioni che li rappresentano richiamano l’importanza e la necessità degli infermieri, dei quali è riconosciuta la competenza nell’erogare interventi di cure primarie, ma viene sottolineato il rischio di un malinteso equivoco: ovvero che gli infermieri siano intercambiabili con i medici. Le due professioni sono complementari ma non equivalenti.[22]

Di fatto, oggi definire le professioni sul rapporto profilo professionale/competenze è anacronistico; è invece necessario abbandonare il pensiero tayloristico con le logiche divisionali dei compiti e delle competenze e parlare il linguaggio dell’impegno professionale, delle qualità soggettive e di ripensare le cose nella complementarietà e nell’interconnessionalità. La sanità è un’impresa di gruppo, è il gruppo che deve coevolvere in tutte le sue componenti in riferimento a nuove concezioni di convenienza sociale ed economica del lavoro quindi a nuove organizzazioni.[23]

 

 

Conclusioni

"Trovarsi insieme è un inizio,

restare insieme un progresso…lavorare insieme un successo" 


Henry Ford 

 

Le scienze biomediche della seconda metà del secolo scorso hanno fatto riferimento, in maniera prevalente, ad una concezione riduttiva dell’uomo: il suo essere era identificato esclusivamente nella dimensione fisica ed organica.

A una tale visione dell’essere umano è logicamente legata una concezione biologico-fisiologica di salute (e di malattia). Così la scienza e la prassi medica venivano ad assumere gli obiettivi e le metodologie proprie delle scienze della natura e il rapporto con il paziente tendeva a costruirsi per lo più secondo un modello concettuale e organizzativo di tipo tecnicistico. Il medico e il suo sapere e potere finivano per acquisire un ruolo predominante e praticamente esclusivo fra i professionisti della salute. L’assistenza infermieristica si configurava, nel suo primo sorgere, come una forza ausiliaria: all’infermiere venivano richieste dal medico alcune prestazioni di servizio oppure gli erano affidati compiti esecutivi di semplice manualità.[x]  L’infermiere si definiva in rapporto al medico piuttosto che alla persona assistita.[24]

Ma il nursing non può definirsi né a partire dal suo rapporto con la professione medica (infermiere come ausiliario del medico) né a partire dal suo rapporto con quella amministrativa, bensì a partire dal rapporto con la persona assistita. Definire il nursing a partire dal rapporto con il malato significa anche indicarne la originalità e la giusta autonomia nei confronti della professione medica e di quella degli altri operatori sanitari.[xi] La professionalizzazione del nursing non deve condurre ad una specie di assimilazione dell’infermiere al medico e al suo allontanamento dalle persone da assistere.[25]

La pratica sanitaria dunque, nonostante i cambiamenti significativi che la caratterizzano, implica un’attenzione particolare alla relazione interpersonale con il paziente: tale relazione costituisce il microcosmo all’interno del quale si producono importanti processi che influenzano in modo significativo i risultati dell’intervento sanitario.

Le discipline psicologiche hanno tradizionalmente contribuito a ricondurre al centro dell’attenzione della pratica sanitaria l’individuo malato e, più in particolare, il rapporto interpersonale; si è voluto in tal modo riconoscere la legittimità di tutti i bisogni della persona malata e non soltanto dei suoi sintomi, superando un approccio generale che “riduce” il paziente a oggetto passivo dell’intervento sanitario.[26]

Il passaggio e il cambiamento, soprattutto di mentalità, non è semplice da attuarsi soprattutto per le resistenze culturali che in situazioni del genere si sviluppano.

E’ compito delle istituzioni e soprattutto dei professionisti superarle per arrivare a costruire rapporti professionali più maturi ed evoluti e più in sintonia con il nuovo contesto pluri-professionale, così da rispondere meglio alle esigenze del Servizio sanitario nazionale.[27]

 

 

bibliografia



[i] ÓBrien-Pallas, 2005

[ii] R.D. 2 maggio 1940, n. 1310 “Determinazione delle mansioni delle infermiere professionali e degli infermieri generici”

[iii] D.P.R. 14 marzo 1974, n.225 “Modifiche al R.D. 2 maggio 1940 n.1310 sulle mansioni degli infermieri professionali e infermieri generici”

[iv] Decreto del Ministro della Sanità 1994, n. 739 “Regolamento concernente l’individuazione della figura e del relativo profilo professionale dell’infermiere”

[v] Legge 26 febbraio 1999, n. 42 “Disposizioni in materia di professioni sanitarie”

[vi] Legge 10 agosto 2000, n. 251 “Disciplina delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche, della riabilitazione, della prevenzione nonché della professione ostetrica”

[vii] MacDonald Ch., 2002

[viii] Glen S., 1999

[ix] Fairman J et al. Broadening the scope of nursing practice, The New England Journal of Medicine 2011

[x] Cf. O. Bassetti, Lo specifico infermieristico, Firenze, 1993, 45.

[xi] Montesinos A. Le infermiere. Roma, 1978; 134



[1] Simeoni I, De Santi AM. Comunicazione in medicina. Torino: Edizioni SEEd, 2009; 7

[2] Simeoni I, De Santi AM. Comunicazione in medicina. Torino: Edizioni SEEd, 2009; 35-8

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[4] Gamberoni L, Lotti A, Marmo G, Rocco G, Rotondi P, Sasso L, Tousijn W. La logica professionale di fronte alle sfide del consumerismo e del managerialismo. In: L’infermiere laureato specialista/magistrale: il progetto formativo. Milano: Edizioni Mc Graw-Hill, 2008; 21-22

[5] Bernardi A, Furlan M, Pegoraro R. Nursing: una scienza e un’arte. In: Etica delle professioni sanitarie. Padova: Edizioni Piccin, 2009; 123

[6] Federazione Nazionale Collegi IPASVI. Codice Deontologico dell’Infermiere 2009. Approvato dal Comitato Centrale della Federazione con deliberazione n.1/09 del 10 gennaio 2009 e dal Consiglio Nazionale dei Collegi IPASVI il 17 gennaio 2009.

[7] Masucci A. Percorso storico e analisi comparativa con alcuni codici deontologici. In: Commentario al codice deontologico dell’infermiere 2009. Federazione Nazionale Collegi IPASVI. Milano: Edizioni McGraw-Hill, 2009; 24-44

[8] Spagnolo AG. Professione infermieristica e valori etici. In: Commentario al codice deontologico dell’infermiere 2009. Federazione Nazionale Collegi IPASVI. Milano: Edizioni McGraw-Hill, 2009; 73-79

[9] Benciolini P. La deontologia dai galatei ai codici deontologici. Pag. 6-15

[10] Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici e Odontoiatri. Codice di Deontologia Medica. 16 dicembre 2006

[11] Benciolini P. Aspetti deontologici della relazione medico-infermiere. Riv Diritto Professioni Sanitarie, 2000; 3 (3): 157-158

[12] Benci L. Il rapporto del medico con i vari operatori della sanità. In: Rivista Salute e Territorio. N.173/2009. Pag. 109-111

[13] Barbieri G. Le leggi parlano chiaro: le attività sono distinte e autonome. In: Rivista L’Infermiere n. 4/2010. Pag. 8-9. Sole 24 Ore Sanità, n.30-31/2010

[14] Benci L. See&treat, diritto d’infermiere. In: Riv. L’Infermiere 4/2010. Pag. 6-7

[15] Pecennini F. La responsabilità sanitaria. Zanichelli, 2007

[16] Iandolo C. La caposala. Roma 1981, 126 s. In: Bernardi A, Furlan M, Pegoraro R. Etica delle professioni sanitarie. Padova: Edizioni Piccin, 2009; 215

[17] Silvestro A. Il nuovo codice deontologico degli infermieri italiani. In: Commentario al codice deontologico dell’infermiere 2009. Federazione Nazionale Collegi IPASVI. Milano: Edizioni McGraw-Hill, 2009; 20

[18] Masucci A, Silvestro A. Alcuni casi emblematici. In: Commentario al codice deontologico dell’infermiere 2009. Federazione Nazionale Collegi IPASVI. Milano: Edizioni McGraw-Hill, 2009; 186-88

[19] Benciolini P. Aspetti deontologici della relazione medico-infermiere. Relazione al III Convegno Nazionale “Il medico e l’infermiere a giudizio” Firenze giugno 2000

[20] Masucci A, Silvestro A. Alcuni casi emblematici. In: Commentario al codice deontologico dell’infermiere 2009. Federazione Nazionale Collegi IPASVI. Milano: Edizioni McGraw-Hill, 2009; 188

[21] Bozzi M. Perché si ha paura del cambiamento. Quotidiano Sanità.it. Aprile 2012

[22] Zanetti E. Il dibattito internazionale sull’integrazione medico-infermieristica. Rivista L’Infermiere 1/2011;7-8

[23] Cavicchi I. Perché la logica del Patto tra le professioni rischia di fallire. Quotidiano sanità.it. Aprile 2012

[24] Bernardi A, Furlan M, Pegoraro R. Nursing: una scienza e un’arte. In: Etica delle professioni sanitarie. Padova: Edizioni Piccin, 2009; 197-201

[25] Bernardi A, Furlan M, Pegoraro R. Nursing: una scienza e un’arte. In: Etica delle professioni sanitarie. Padova: Edizioni Piccin, 2009; 210-212

[26] Sommaruga M. Comunicare con il paziente. Roma: Edizioni Carocci, 2005; 11-2

[27] Benci L. La lunga marcia contro le gerarchie. Il Sole 24 ore 6 novembre – 12 novembre 2007, p. 26