STENOSI DELLA CAROTIDE:

Il punto di vista del Chirurgo Vascolare

 

Eugenio Meucci

U.O. Chirurgia Vascolare Ospedale San Luca Vallo della Lucania (SA)

 

 

Lo stroke rappresenta la terza causa di exitus nel mondo occidentale (10% del totale) e la prima causa di invalidità permamente. Si ritiene che l’80% degli ictus sia di natura ischemica ed il 20% di natura emorragica. Il 30% di tutti gli ictus ischemici è di origine carotidea preceduto nel 15-30% dei casi da un TIA premonitore. Nei pazienti portatori di una stenosi  carotidea i trattamenti invasivi e/o farmacologici si propongono l’obiettivo di ridurre il rischio di un evento cerebrovascolare tromboembolico mediante la rimozione o la stabilizzazione della placca aterosclerotica.

Il trattamento della stenosi carotidea è stato oggetto dello studio da parte di specialisti di varie branche sin dall’epoca dell’introduzione dell’endoarterectomia carotidea (CEA) come metodica preventiva e terapeutica dell’ictus ischemico circa 50 anni or sono. Da allora l’evoluzione della tecnica e dei risultati hanno reso la CEA della biforcazione carotidea l’intervento chirurgico più diffuso nei reparti di chirurgia vascolare garantendo risultati ampiamente riproducibili e beneficiandosi di una validazione scientifica inoppugnabile offerta da trial di elevato valore metodologico (principalmente NASCET ed ECST per le stenosi sintomatiche e ACAS ed ACST per le asintomatiche). Tali trial hanno sancito in modo inequivocabile l’efficacia della metodica nella prevenzione dell’ictus ischemico in pazienti portatori di stenosi carotidee sintomatiche ed asintomatiche. I dati della Letteratura consentono, pertanto, a tutt’ora di esprimere una raccomandazione di grado A a favore della CEA carotidea nelle stenosi carotidee sintomatiche ed asintomatiche definendo con chiarezza quali siano i pazienti che si beneficiano o meno di un trattamento chirurgico associato alla migliore terapia farmacologica comunque necessaria.

Nell’ultimo decennio l’angioplastica carotidea o stenting carotideo (CAS) ha conosciuto una diffusione crescente come metodica mini-invasiva alternativa alla CEA, in particolare nei pazienti ad “alto rischio per CEA”, beneficiando di una tecnologia in continua evoluzione e di una esperienza crescente degli operatori che hanno consentito di affinarne la strategia e la tecnica e di offrire, in mani esperte, in una percentuale sempre più elevata di pazienti, risultati estremamente vicini a quelli della CEA.

La terapia medica ha d’altro canto, migliorato notevolmente i suoi risultati sia nella riduzione del tasso di stroke primario (essenzialmente in virtù di variazione delle abitudini di vita e di altre misure di prevenzione primaria), sia nella riduzione dello stroke recidivo, grazie all’introduzione ed alla diffusione di nuove molecole e di nuovi protocolli di trattamento (diete antiaterogene, doppia antiaggregazione, statine ad alto dosaggio, nuove terapie antiipertensive, etc). Ciò ha consentito sia di ridurre significativamente rispetto al passato la morbidità neurologica e cardiovascolare dei pazienti portatori di stenosi carotidea non indirizzati ad alcun trattamento invasivo. sia di migliorare i risultati delle metodiche invasive alla quale la terapia adiuvante viene affiancata,

La metodica endovascolare e la terapia farmacologica si propongono, quindi, sempre più di frequente come soluzioni alternative all’endoarterectomia, e la scelta tra CEA, CAS e BMT rappresenta, spesso, nella gestione di questi pazienti, l’argomento maggiormente oggetto di discussione.

Come già ribadito in precedenza il valore preventivo della CEA è stato ampiamente documentato, con il massimo livello di evidenza scientifica, dai grandi trial degli anni 90 con un efficacia preventiva che è, naturalmente, direttamente proporzionale con il rischio ictale della popolazione alla quale si indirizza ed inversamente proporzionale al rischio periprocedurale.

E’ ben noto come gli elementi maggiormente predittivi del rischio cerebrovascolare nei pazienti portatori di stenosi della carotide siano la presenza o meno di una sintomatologia neurologica emisferica o oculare negli ultimi 6 (o meglio 3) mesi, il grado della stenosi e, in misura minore, le caratteristiche della placca.  Il valore preventivo della CEA sarà maggiore in presenza di stenosi sintomatiche>70% (con una riduzione assoluta di rischio a 5 anni del 16% equivalente al 3,2%/anno e ad un NNT di 6), laddove per stenosi sintomatiche tra il 50 ed il 70% il beneficio sarà più moderato (con una riduzione assoluta di rischio a 5 anni del 4,6%, 0,9%/anno, NNT di 15).

Altri fattori predittivi significativi identificati oltre la presenza di un sintomo neurologico ed il grado di stenosi sono stati, il sesso, l’età, la natura del sintomo, eventuali comorbidità, le caratteristiche anatomiche e le caratteristiche morfologiche della placca, risulta però poco opportuno trasferire conclusioni dall’analisi di tali dati alla pratica clinica attuale, sia per le imprevedibili interferenze di ordine statistico, sia per le limitazioni derivanti dall’analisi di dati riferiti ad un epoca nella quale la terapia farmacologica non era senza dubbio equivalente a  quella attuale.

Particolare interesse suscita, però, l’analisi cronologica dei sottogruppi realizzata da Rothwell sui dati del NASCET e dell’ECST (validata successivamente da un’ampia letteratura vedi SOS-TIA ed EXPRESS) che documenta come l’efficacia preventiva dell’intervento di CEA sia massima (dopo TIA o AVC minori) nelle prime due settimane dopo il sintomo (NNT 5) per ridursi gradualmente nel tempo sino a richiedere dopo 120 gg dal sintomo 125 interventi per prevenire uno stroke. Pertanto, leggendo con attenzione anche i dati del GALA trial, una chirurgia più precoce, sia pure intervenendo su una popolazione di pazienti a maggiore rischio, previene un maggior numero di ictus ed è senza dubbio di maggior beneficio rispetto ad una chirurgia tardiva più prudente, ma meno efficace. A titolo esemplificativo una CEA nelle prime 2 settimane, con una morbidità dell’8%, previene 170 ictus/1000 CEA, mentre dopo 4-12 settimane dal sintomo, anche con una morbimortadità perioperatoria teorica eguale a zero, dimezza il suo valore preventivo: 80 ictus prevenuti/1000 CEA. E’ pertanto categorica ed ampiamente condivisibile la raccomandazionne di grado A espressa da tutte le linee guida (SICVE, SVS, Società Europea di Chirurgia Vascolare, etc.) che pone indicazione al trattamento precoce dei pazienti sintomatici suggerendo una CEA “urgente” (entro 14 gg) in centri ad elevata esperienza dopo TIA o AVC minori determinati da stenosi carotidee>50%, capitalizzando un vantaggio che sarà tanto maggiore quanto più si potrà contrarre il rischio perioperatorio. E’ questa, senza dubbio, la categoria di pazienti che maggiormente si beneficia di un trattamento invasivo e costituisce, pertanto, il settore nel quale andrebbero concentrati gli sforzi organizzativi ed economici, mirati alla selezione dei casi sintomatici da inquadrare in tempi brevi e da indirizzare ad un trattamento urgente presso centri di consolidata esperienza. Non è certo un caso che questa sia la categoria di pazienti nei quali il trattamento chirurgico aperto, la CEA, dimostra con chiarezza, sulla scorta dei dati dell’ICSS la superiorità rispetto all’angioplastica. Attualmente. Giova in questa fase sottolineare come delle circa 135000 stenosi carotidee vengono trattate ogni anno negli Stati Uniti da specialisti di varie branche il 92% di questi pazienti siano in pazienti asintomatici (percentuali non dissimili da quelle europee) e come l’11% di tali procedure siano rappresentate da angioplastiche.

Maggiori perplessità desta la possibilità di una chirurgia precoce nei pazienti affetti da SIE (stroke in evolution), non ancora raccomandabile su larga scala, anche se diversi contributi in letteratura  documentano risultati eccellenti in centri superspecialistiici con un’accurata selezione dei pazienti (AVC in  evoluzione, ma con stato di coscienza conservato ed estensione del focolaio ischemico limitato a meno di un terzo del territorio silviano), specie su pazienti precedentemente sottoposti a fibrinolisi sistemica ed a condizione di mantenere un’accurata omeostasi pressoria.

In relazione all’opportunità del trattamento di pazienti portatori di stenosi carotidee asintomatiche giova sottolineare che la popolazione di pazienti a cui ci si riferisce presenta un rischio cerebrovascolare estremamente contenuto (non molto dissimile da quello coronarico) ed è pertanto di primaria importanza in questi pazienti un intervento di prevenzione cardiovascolare globale.  L’analisi dei dati dell’ACAS e dell’ACST documenta nel braccio chirurgico una riduzione assoluta di rischio di stroke del 1%/anno anche contenendo il tasso di morbimortalità al di sotto del 3%, con un differenza statisticamente significativa  a 5 anni, ma che si rendeva evidente in particolare nei pazienti con un sufficiente aspettativa di vita. E’ evidente che considerato l’arruolamento nei Trial di pazienti in diversi intervalli di tempo il trattamento medico al quale sono stati sottoposti sia il braccio medico che il braccio chirurgico è piuttosto dissimile (a titolo di esempio i pazienti arruolati nell’ACST nel 1993 assumevano le statine nel 10% dei casi e quelli arruolati nel 2003 nell’80% dei casi). L’evoluzione nella terapia farmacologica ha, quindi, senza dubbio migliorato la prognosi dei pazienti indirizzati alla terapia medica come documentato dagli stessi studi ACAS (arruolamento 1987-1993: stroke risk=11%) ed ACST (arruolamento1993-2003: stroke risk=5,3%), ridotto infine nel secondo quinquennio a 3,7%.

Non si dispone, comunque, attualmente di dati di I livello che dimostrino una superiorità della BMT sulla terapia chirurgica anche nella categoria di pazienti asintomatici. Difatti l’affermazione che i progressi della terapia medica abbiano risolto i rischi nei pazienti portatori di una stenosi asintomatica non rendendo, quindi, necessario alcun trattamento invasivo, trova riscontro in studi non adeguati a determinare la cura perché realizzati su pazienti che non erano reali candidati alla terapia chirurgica.

A titolo di esempio si ricordano:

-                              lo studio SMART, spesso citato per avvalorare, la supremazia della BMT sulla CEA che ha monitorizzato 221 pazienti, gran parte dei quali non erano candidati chirurgici in virtù di una PSV massima di circa 150 cm/sec (solo 96 pazienti presentavano una stenosi > 70% con una PSV >210 cm/s).

-                              L’ Oxford Vascular Study che ha riportato un tasso annuo dello 0.34% di stroke e 1.8% di TIA ipsilaterali sotto BMT per anno. Tale studio monitorizzava però solo 101 pazienti con una stenosi>50% stenosi, dei quali solo 32 presentavano una stenosi tra il 70 ed il 99% (3 di questi 32 hanno svilupppato uno stroke durante il follow-up).

Altri autori (Spence et al hanno impiegato il TCD allo scopo di identificare tra i pazienti portatori di stenosi asintomatiche (PSV >170 cm/s) quelle che presentavano eventi microembolicici, e che quindi rivelavano un maggiore potenziale emboligeno (stroke risk =10.3% nel 1° anno e  18.5% nel 2° anno versus 1,4 ed 1,8 nei restanti). Ci si chiede però a quale titolo I pazienti nei quali erano strati riscontrati tali eventi microembolici non siano stati, più opportunamente riferiti alla CEA verificata l’evidente inefficacia della terapia medica?

Lo studio ACSRS ha monitorizzato 462 pazienti portatori di una stenosi carotidea >60% secondo il criterio ECST   (30% secondo il criterio NASCET) nei quali sono state relizzate TAC cranio alla ricerca di ischemie silenti; il trasso di stroke annuale è stato 4,6% in presenza di infarti silenti e 2,4% in assenza di infarti silenti.

In conclusione, i pazienti che sviluppano uno stroke di origine carotidea erano, in una fase precedente, portatori di una stenosi asintomatica ed erano, pertanto, trattabili con un gesto chirurgico o endovascolare.  Il trattamento della stenosi carotidea con la CEA ed in alcuni casi con la CAS, in associazione alla miglior terapia medica, rappresenta, nei pazienti a buon rischio sistemico e buona spettanza di vita, attualmente la terapia più efficace in presenza di una stenosi carotidea asintomatica emodinamicamente signififcative, specie se portatori di stenosi di grado più severo. Lo sforzo della letteratura deve senza dubbio essere indirizzato come, ad esempio, nell’ACSRS (Asymptomatic carotid stenosi and Risk of Stroke) nell’identificare le sottopopolazioni di pazienti che sulla scorta di marker clinici, anagrafici, morfologici e di altra natura presentino un maggior rischio cerebrovascolare e pertanto maggiormente si beneficino di un trattamento preventivo. 

In relazione alla persistente efficacia delle metodiche chirurgiche aperte ed endovascolare (CEA vs CAS) è evidente che gli elementi che entrano in discussione sono la preservazione del risultato anatomico (restenosi) e la preservazione del risultato clinico e, quindi, la persistente efficacia nella prevenzione dell’ictus ateroembolico. E’ noto come il meccanismo responsabile della restenosi arteriosa dopo CEA sia correlato con l’intervallo di tempo dopo il quale esso si verifica: le restenosi precoci (entro i due anni) sono costituite caratteristicamente da iperplasia intimale laddove le più tardive riflettono una progressione della malattia aterosclerotica ed alla luce dei dati della Letteratura non sembrano differire significativamente tra le due metodiche (CEA e CAS).  In relazione alla conservazione del risultato clinico, in grossi trial randomizzati il tasso di stroke ipsilaterali dopo endoarterectomia superato i primi 30 giorni post-operatori è risultato rispettivamente dall’1% al 2% (ECST e NASCET) nei pazienti sintomatici e dallo 0,5 allo 0,8% (ACAS ed ACST) negli asintomatici. Questi dati sono oramai confrontabili a medio-lungo termine con quelli espressi dagli studi EVA-3S e SPACE oramai disponibili ed estremamemnte promettenti per ambedue le procedure. Difatti l’EVA-3S documenta tassi di ictus ipsilaterali (esclusi gli eventi periprocedurali a 30gg) di circa l’1% anno sia per l’endoarterectomia che per la CAS, laddove nello studio SPACE, a 2 anni, il tasso di stroke ipsilaterali a 2 anni era di circa l’1% /anno, esclusi gli eventi periprocedurali. La preservazione del risultato clinico ad oltre 5 anni non può invece, ancora essere documentata.

Non si può a questo punto non segnalare come in particolare in alcuni centri europei ed italiani nell’ultimo decennio l’angioplastica ha conosciuto una crescente diffusione ed utilizzazione estensiva in un epoca senza dubbio precedente la sua validazione scientifica, la dimostrazione dell’appropriatezza clinica della metodica (accuratezza=sicurezza+efficacia) ed ancora una corretta analisi della costo-efficacia. L’angioplastica è uscita dalla fase pioneristica nel 2004 dopo la pubblicazione del SAPPHIRE che con tutti i suoi limiti, ampiamente discussi, ha sancito la non inferiorità della metodica nel trattamento dei pazienti “ad alto rischio per CEA”. Anche considerando le notevoli perplessità inerenti la definizione di “alto rischio”,  quelli derivanti dall’opportunità di affrontare qualunque trattamento in pazienti asintomatici affetti da gravi comorbidità mediche che condizionano seriamente la sopravvivenza immediata ed a distanza e le leggittime difficoltà a ritenere obiettivo uno studio commissionato e finanziato dall’azienda coinvolta nella produzione e commercializzazione delle tecnologie sanitarie impiegate, nella seconda metà dell’ultimo decennio le indicazioni al trattamento endovascolare proposte nel SAPPHIRE sono state riconosciute dalla comunità scientifica internazionale in quanto utili ad identificare una categoria di pazienti nei quali, in presenza di un’anatomia idonea, fosse ragionevole procedere ad un trattamento endoluminale in alternativa ad un trattamento convenzionale. E’ utile ribadire che tale indicazione confinate ai pazienti portatori di stenosi sintomatiche “ad alto rischio per CEA”, resta a tutt’ora l’unica riconosciuta e rimborsata negli Stati Uniti dal Medicare.

Certamente l’utilizzazione della metodica endovascolare è stata estesa molto oltre i limiti definiti da tale indicazione sino a rappresentare in numerosi centri ad elevato volume la tecnica routinaria di trattamento della stenosi carotidea dalla quale venivano sottratti esclusivamente i pazienti nei quali il trattattamento endoluminale fosse controindicato (trombi flottanti, calcificazioni circonferenziali, archi aortici a porcellana) o inefficace.

Come in ogni situazione nella quale si disponga di diverse opzioni terapeutiche la definizione del trattamento ottimale può risultare difficile. Tale difficoltà viene incrementata dal coinvolgimento in questo settore di specialisti di varia estrazione che, come documentato da una letteratura che propone risultati e conclusioni discordanti, affrontano questi pazienti con diversi approcci metodologici. Chiara espressione di tale dissenso emerge dalle divergenze evidenziabili tra le linee guida prodotte nel 2011 dal Consensus multidisciplinare promosso dalla AHA  “Management of Patients with Extracranial Carotid and Vertebral Artery Disease.” e le linee guida pubblicate a pochi mesi di distanza dalla SVS che, anche partecipando ai lavori del gruppo multidisciplinare si dichiarava in parte in disaccordo con le conclusioni proposte dall’AHA.

A fare chiarezza in questo argomento deve contribuire un’attenta analisi dei risultati dei trial storici e dei due trial prospettici randomizzati di recente pubblicati che hanno confrontato l’efficacia della CEA e della CAS nel trattamento della stenosi carotidee asintomatiche e sintomatiche (CREST ed ICSS). Indicativa della diffusione delle due metodiche e dei risultati da esse garantiti risulta, infine, l’esito di una recente meta-analisi pubblicata sul JVS che ha incluso, peraltro, anche i dati pubblicati in tali trial menzionati in precedenza e che offre una fedele cronaca dello “stato dell’arte” prescindendo dalle indicazioni e dalla selezione dei pazienti.

Certamente tutti questi dati confermano che, con le corrette indicazioni e con un’accurata selezioni dei pazienti, degli operatori e dei centri le metodiche sono competitive (ma non senza dubbio equivalenti), offrendo risultati clinici nella globalità dei pazienti molto simili sia pure con un maggiore tasso di stroke per la CAS ed un maggior numero di complicanze coronariche nella CEA. E’ indiscutibile che la CEA risulti attualmente superiore alla CAS nei pazienti sintomatici, che ricordiamo, al di fuori delle esigenze delle aziende che si fondano sui fatturati, sono o, meglio, dovrebbero essere il centro del nostro interesse in quanto sono la popolazione di pazienti nella quali abbiamo maggiori probabilità di abbattere morbidità e mortalità. Ritengo che in un settore nel quale la ricerca ci supporta quotidianamente di nuovi ausili diagnostici, farmacologici e tecnologici sia oggi più che mai indispensabile che il trattamento di pazienti portatori di una stenosi della carotide venga realizzato presso centri che dispongano di tecnologie e competenze per utilizzare con giudizio, equilibrio ed onestà, ai massimi livelli possibili, contemporaneamente le tre armi di cui disponiamo: la terapia farmacologica, la terapia chirurgica aperta e l’angioplastica. Non posso concludere, però. non ricordando che la partita più importante che è, come già più volte sottolineato, quella delle stenosi sintomatiche prevede necessariamente una sensibilizzazione ed un pieno coinvolgimento del territorio e della rete dell’emergenza.

 

 

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