IL TRATTAMENTO DELL’ANEURISMA
DELL’AORTA ADDOMINALE
Eugenio Meucci, Fernando
Petrosino, Luigi Meucci, Salvatore De Vivo, Alessandro Luongo,
Adriana Perziano, Luigi Gallo*, Rocco De Leo*
Unità Operativa Complessa di
Chirurgia Vascolare
*Unità Operativa Complessa di
Anestesia e Sala Operatoria
P.O. S.Luca – Vallo della
Lucania – ASL SALERNO
L’aneurisma dell’aorta
addominale, definendo come tale una dilatazione dell’aorta con
un diametro > 3 cm (>1,5-2 volte il valore di normalità), è una
patologia multifattoriale, più frequente in soggetti fumatori,
dislipidemici o ipertesi, che può presentare una predisposizione
familiare e che colpisce globalmente il 5-7% degli uomini e l’1%
delle donne. La presenza di un aneurisma dell’aorta addominale
identifica una popolazione a più elevato rischio di rottura e di
altri eventi cardiovascolari quali l’infarto del miocardio,
l’ictus e l’ischemia degli arti inferiori. Il rischio di rottura
annuo di un aneurisma dell’aorta addominale è direttamente
proporzionale al suo diametro ed è maggiore in caso di
espansione rapida e nel sesso femminile. La valutazione del
rischio di rottura dell’aneurisma, del rischio peri-operatorio e
dei risultati chirurgici immediati ed a distanza condiziona,
naturalmente, la scelta di un trattamento realizzato
nell’intento di prevenire la rottura dell’aneurisma e la
mortalità ad esso correlata.
Tale scelta è indirizzata
attualmente dalle linee guida condivise dalle Società
Internazionali e basate sui dati pubblicati in letteratura ed in
particolare, per le indicazioni generiche all’intervento
chirurgico, prevalentemente sui trial realizzati sugli aneurismi
di piccolo calibro: United Kingdom Small Aneurysm Trial
(UKSAT) e Aneurysm Detection and Management (ADAM).
La SICVE
(Società Italiana di Chirurgia Vascolare ed Endovascolare)
raccomanda difatti di non trattare gli aneurismi sottorenali
o juxtarenali asintomatici di diametro inferiore a 50 mm nei
maschi e a 45 mm nelle donne (raccomandazione di Grado C,
livello I).
Analogamente le linee guida
della SVS (Society for Vascular Surgery) e dell’ACC/AHA
(American College of Cardiologist/American Heart Association)
raccomandano il monitoraggio per gli aneurismi fusiformi,
asintomatici di diametro inferiore ai 40 mm ed il
trattamento chirurgico per gli aneurismi fusiformi,
asintomatici, di diametro superiore a 54 mm in pazienti in buone
condizioni generali.
Il trattamento in elezione è,
ancora, raccomandato per AAA sacciformi o con elementi
morfologici che suggeriscano un’evolutività
(incremento diametro>1cm/anno,
dissecazione del trombo, presenza di blister, etc.) e quindi
un rischio di rottura, oltre che naturalmente negli aneurismi
dolorosi.
Nei pazienti portatori di
aneurismi di diametro compreso tra 40 e 54 mm l’eventuale
trattamento non garantisce quindi un incremento significativo
della sopravvivenza, come dimostrato dai già citati trial UKSTA
ed ADAM. Anche i trial condotti nell’intento di documentare un
efficacia del trattamento endovascolare (EVAR: endovascular
aneurysm repair) negli aneurismi di piccole dimensioni (CAESAR
trial e PIVOTAL trial) non hanno mostrato risultati definitivi a
tale riguardo. La posizione maggiormente condivisa suggerisce
il monitoraggio ed il trattamento selettivo nei pazienti
anziani, di sesso maschile, con severe comorbidità associate
ed il trattamento dei pazienti giovani, sani specie se di
sesso femminile e con diametri tra 50 e 54 mm.
Altro argomento oggetto di
notevoli controversie è rappresentato dall’impiego di un
trattamento chirurgico aperto o endovascolare, scelta che si
basa su una valutazione il più delle volte complessa e che
richiede un studio meticoloso del singolo paziente e
dell’aneurisma di cui è portatore.
Escludiamo da questa dicotomia
gli aneurismi pararenali nei quali le arterie renali sono
adiacenti al colletto prossimale dell’aneurisma (aneurismi
iuxtarenali) o partono dalla sacca aneurismatica (aneurismi
soprarenali) imponendo, pertanto, l’impiego di una soluzione
chirurgica open salvo ricorrere, in pochi centri ad elevati
volumi, all’impianto delle dispendiose protesi fenestrate o alla
realizzazione di una “chimney technique” i cui risultati a
medio-lungo termine sono, peraltro, ancora da validare.
Il dilemma endovascolare o
open resta, pertanto,
aperto per gli aneurismi sottorenali nei quali nella pratica
corrente l’impiego della soluzione endovascolare acquisisce
sempre maggior diffusione in virtù dell’interesse sollevato
dalla tecnica meno invasiva, caratterizzata da tassi di
morbi-mortalità più contenuti, da una degenza più breve ed, in
ultima analisi, da una migliore accettazione da parte del
paziente.
Ma quali sono i risultati a
lungo termine delle due tecniche osservati nei trial
comparativi?
Nello studio EVAR 1 i
risultati a 10 anni hanno mostrato che gli iniziali vantaggi
dell’EVAR giustificati per la bassa mortalità operatoria (circa
1/3 rispetto alla chirurgia open), sono vanificati a 6 anni di
follow-up a causa dell’elevato numero di rotture dell’aneurisma
a distanza dal trattamento endovascolare, contro nessuna rottura
dopo chirurgia open. Anche l’indennità da complicanze e
reinterventi a distanza è risultata nettamente a favore della
chirurgia open, con differenze statisticamente significative.
Analogamente, i risultati a 6
anni del DREAM non hanno mostrato nessuna differenza
significativa in termini di sopravvivenza a distanza, laddove a
4 anni di follow-up un aumento allarmante di reinterventi si è
manifestato dopo EVAR.
Più recentemente (2002-2008) il
trial americano OVER ha randomizzato 881 pazienti con un
aneurisma di diametro superiore a 5 cm, 444 a un trattamento
endovascolare e 437 a una chirurgia open. I risultati ad
interim, a un follow-up di quasi 2 anni (1.8) hanno mostrato una
mortalità peri-operatoria significativamente più elevata dopo
chirurgia open, in entrambi i casi più bassa che nei trials
europei, laddove nel corso del follow-up la mortalità dei due
gruppi è stata sovrapponibile (6.1% vs 6.6% ; p=
.74), senza alcuna differenza significativa in termini di
mortalità globale a due anni (7.0% vs 9.8% ; p= .13).
Nessuna differenza è stata
osservata in termini di fallimento della procedura, di
reinterventi a distanza, di ricoveri iterativi per la patologia
aneurismatica, o di morbidità significativa a 1 anno.
Dei 61 reinterventi dopo EVAR,
circa 2/3 (42) sono stati realizzati per via endovascolare e dei
55 reinterventi dopo chirurgia open oltre la metà (30) sono
stati dei laparoceli, 7 i reinterventi sull’innesto aortico.
Non è stata osservata nessuna
differenza relativamente alla qualità di vita e alla funzione
erettile del corso dei due anni di follow-up.
Di particolare interesse sono i
risultati pubblicati recentemente relativi al trattamento
chirurgico convenzionale ovvero endoluminale di 45660 pazienti
beneficiari del sistema assicurativo statunitense Medicare
dal 2000 al 2004 e seguiti fino al 2005 che, analogamente ai
trials europei, hanno dimostrato una mortalità inferiore dopo
trattamento endovascolare (1.2% vs 4.8%), con delle differenze
tanto più significative quanto più è avanzata l’età dei
pazienti, del 2.1% al di sotto di 70 anni e dell’8.5% al di
sopra di 80 anni.
Analogamente ai trials
europei, l’andamento delle curve di sopravvivenza in funzione
dell’ età ha mostrato una mortalità a distanza simile nelle due
coorti di pazienti ma la convergenza delle due curve si
manifesta solo a distanza di 3 anni e sempre più tardivamente
quanto più è avanzata l’età dei pazienti.
Il rischio di rottura
dell’aneurisma a distanza del trattamento endovascolare è stato
solo dell’1.8%, come anche relativamente modesto il numero di
reinterventi relativi alla patologia aneurismatica (9%),
comunque superiore a quello del trattamento chirurgico
convenzionale.
Complessivamente, in base a tali
risultati la mortalità e le complicanze precoci del trattamento
endovascolare sono risultate inferiori rispetto al trattamento
chirurgico convenzionale. Le curve di sopravvivenza sono state
più durature e favorevoli al trattamento endovascolare nei
pazienti in età avanzata.
E’ comunque indispensabile, nel
selezionare il trattamento idoneo per il singolo paziente,
un’attenta analisi sia del contesto clinico, in particolare
delle comorbidità che condizionano il rischio (specie
cardiologico) di una chirurgia open, che delle caratteristiche
anatomiche dell’aneurisma, che condizionano le possibilità o
meno di un trattamento endovascolare, in termini di fattibilità
e di risultati a distanza. La scelta risulterà, infine,
fortemente condizionata sia dalle preferenze del paziente, che
dall’orientamento del chirurgo.
La percentuale di interventi
endovascolari ha, comunque, raggiunto in numerosi centri ad
elevato volume valori talmente elevati (>80% del totale) da
lasciare intendere che l’unico elemento discriminante la scelta
resta per molti il solo rispetto dei requisiti anatomici
previsti per le diverse endoprotesi, oggetto spesso, peraltro,
di interpretazioni soggettive e di tentativi di adattare la
soluzione endovascolare ad anatomie sempre più complesse.
A conferma di ciò basta citare
le linee guida della SICVE che pongono, al punto 4,
l’indicazione all’EVAR sulla scorta solo del rispetto delle
condizioni anatomiche e tecniche (Raccomandazione di grado A,
livello III), non mettendo in discussione, come elementi
vincolanti la scelta, il rischio operatorio del paziente o la
sua età.
Al contrario l’SVS suggerisce
anche elementi clinici di valutazione all’EVAR quali la
coesistenza di una patologia coronarica e soprattutto il recente
impianto di stent coronarici medicati che comporti la necessità
di una doppia antiaggregazione. Le linee guida dell’SVS
allargano le indicazioni all’EVAR anche ai casi compassionevoli
esprimendo addirittura una raccomandazione, sia pure con una
bassa qualità dell’evidenza, per i pazienti “unfit” per il
trattamento chirurgico open.
Analogamente le linee guida
dell’ACC-AHA suggeriscono il trattamento open nei pazienti a
medio o basso rischio perioperatorio, (Livello di evidenza B),
riservando ai pazienti ad alto rischio per comorbidità
cardiopolmonari o di altra natura il trattamento endovascolare
che può, però, a giudizio dell’ACC-AHA, essere preso in
considerazione anche nei pazienti a basso rischio (Livello
dell’evidenza B).
Più restrittive sono le
indicazioni espresse dall’Agence Francaise de Sécurité Sanitaire
des Produits de Santé (AFSSAPRS) che elencano le condizioni di
rischio nelle quali configurare un trattamento endovascolare
includendo tra le altre la presenza di un addome ostile, di
ascite e/o segni ipertensione portale. Le stesse linee guida
sottolineano l’importanza del rispetto nel caso di un
trattamento endovascolare dei criteri anatomici e delle
controindicazioni delle singole protesi elemento questo che
condiziona in maniera rilevante insuccessi precoci e risultati a
distanza del trattamento chirurgico.
Le linee guida NICE del 2009
puntualizzano prima di tutto l’indicazione all’intervento
chirurgico, indipendentemente dalla tecnica, la cui scelta deve
essere frutto della discussione tra chirurgo e paziente sulla
base di dati oggettivi. Un’altra raccomandazione espressa
riguarda il possesso di adeguati requisiti e di esperienza da
parte della struttura e degli operatori coinvolti nel
trattamento.
Relativamente al contesto
clinico del paziente, la stratificazione del rischio
cardiologico è senza dubbio più interessante della definizione
del rischio anestesiologico secondo la classificazione ASA,
abbandonata nella letteratura più recente tra i fattori
prognostici che condizionano il rischio operatorio.
Difatti, quale che sia l’opzione
terapeutica, la stratificazione del rischio cardiologico è
cruciale, secondo le linee guida del 2007 dell’American College
of Cardiology e dell’American Heart Association, che hanno
identificato tra i fattori di rischio una pregressa
cardiopatia ischemica, uno scompenso cardiaco, una patologia
cerebrovascolare, il diabete e un’ insufficienza renale.
Al di fuori del contesto
dell’urgenza e in assenza di una sintomatologia cardiaca, sia in
caso di chirurgia open che di EVAR, nel caso di un paziente che
abbia una buona capacità funzionale (superiore a 4 equivalenti
metabolici-MET), si può procedere direttamente all’intervento.
Se tale capacità funzionale è <4
MET ovvero sconosciuta :
·
in presenza di tre
o più fattori di rischio si deve procedere a un test non
invasivo della riserva coronarica, un ecostress con dobutamina o
una scintigrafia miocardica e, se indicato, a una
coronarografia;
·
se i fattori di
rischio sono uno o due è indicato un controllo della frequenza
cardiaca con beta-bloccanti e eventualmente un test non
invasivo.
Per una valutazione oggettiva
del rischio peri-operatorio globale sono stati introdotti
diversi modelli predittivi che, valutando la presenza di
diversi fattori prognostici il cui peso viene espresso
numericamente, hanno identificato sottogruppi di pazienti a
basso o alto rischio in caso di chirurgia open. I più efficaci
sono il Glasgow Aneurysm Score (adottao dalla SICVE), il Leiden
Score e il Comorbidity Severity Score (adottato dalla SVS).
In una recente pubblicazione
(Faizer. JVS 2007), l’applicazione di tali modelli al database
relativo a 558 interventi open e 304 EVAR eseguiti in 5 anni ha
consentito di identificare per ciascuno dei modelli un cut point
al di sotto dei quali i risultati della chirurgia open sono
stati eccellenti, senza nessuna differenza significativa tra
chirurgia open e EVAR in termini di mortalità peri-operatoria.
E’ possibile, pertanto, identificare un gruppo di pazienti per i
quali l’interesse principale dell’EVAR, una mortalità operatoria
di tre volte inferiore alla chirurgia open nei trials
randomizzati, viene vanificato.
Al di sopra dei cut point la
mortalità della chirurgia open è stata, viceversa,
significativamente più elevata rispetto all’EVAR, individuando
un gruppo di pazienti per i quali l’EVAR dimostra tutto il suo
interesse.
Nei pazienti ad elevato rischio
peri-operatorio sarebbe peraltro possibile contemplare anche
l’opzione astensione da qualunque trattamento. I risultati a 10
anni dello studio EVAR 2 hanno dimostrato però che, pur
non essendovi alcuna differenza significativa in termini di
mortalità globale e pur essendo le aspettative di vita di questi
pazienti molto modeste, un trattamento endoluminale consente di
ridurre significativamente la mortalità correlata all’aneurisma.
A condizione, pertanto, di verificare la compatibilità anatomica
(assoluta o relativa) al trattamento endovascolare, l’EVAR
trova quindi tutto il suo interesse in un paziente ad alto
rischio che debba convivere quotidianamente con un rischio di
rottura di un aneurisma di grosso diametro, tenuto conto del
rischio elevato di una chirurgia open e delle ridotte
aspettative di vita del paziente, che riducono il rischio
relativo di complicanze a distanza del trattamento endoluminale.
In un contesto di equivalenza
tra le due opzioni terapeutiche, rischio basso di una chirurgia
open e morfologia dell’ aneurisma favorevole a un trattamento
endovascolare, la scelta tra chirurgia endovascolare e EVAR
rimane, anche alla luce dei dati presentati, controversa,
considerato che l’EVAR si beneficia di una morbi-mortalità
peri-operatoria minore, di una degenza più breve, non richiede
stazionamento in ICU, ma comporta maggiori costi, richiede una
sorveglianza costante, espone a un maggior numero di
reinterventi e, soprattutto, di rotture dell’aneurisma che
vanifica la ridotta mortalità operatoria e rende equivalente la
mortalità a distanza delle due procedure, sia globale che
correlata alla patologia aneurismatica.
CONCLUSIONI
Resta difficile formulare delle
conclusioni su un argomento così complesso e controverso.
Le raccomandazioni che emergono
dalla nostra trattazione basata sull’analisi della letteratura
sono le seguenti:
·
la scelta tra le
diverse modalità terapeutiche deve basarsi sull’età ma
soprattutto sulle aspettative di vita del paziente, sulle
caratteristiche anatomiche dell’ aneurisma, e sul rischio
operatorio del paziente;
·
un trattamento
chirurgico convenzionale è indicato nei pazienti più giovani,
con minori comorbidità, soprattutto in presenza di un’anatomia
complessa;
·
un trattamento
chirurgico endovascolare è indicato nei pazienti in età
avanzata, con maggiori comorbidità, in presenza di un’ anatomia
favorevole.
Tali raccomandazioni sono
chiaramente generiche, non fosse altro per la definizione di
“rischio operatorio basso o elevato” difficile da precisare, e
pertanto la scelta non può prescindere dalla valutazione del
singolo paziente. Tale valutazione rinvia al ruolo centrale del
chirurgo e alle sua conoscenza della storia naturale della
malattia e del suo rischio evolutivo, come anche delle
aspettative di vita del paziente.
Quando si opti per un
trattamento open, essenziale è la valutazione del rischio
operatorio del singolo paziente, operata dal chirurgo con il
supporto di altri specialisti (cardiologo, pneumologo,
anestesista), che non possono però sostituirsi a lui nella
definizione di operabilità.
Quando si opti per un
trattamento endoluminale, determinante è la valutazione
dell’anatomia dell’AAA che condiziona la fattibilità e la
complessità del trattamento e quindi anche i risultati immediati
e a distanza. Parte fondamentale del trattamento endovascolare è
difatti lo studio morfologico preoperatorio del singolo caso
propedeutico alla scelta del device, che l’operatore deve
realizzare in autonomia supportato, arricchito, ma non limitato
dal parere del radiologo vascolare o degli specialisti di
prodotto, con cui può confrontare le proprie valutazioni ma non
delegarle a loro.
Infine l’operatore deve avere le
capacità di fornire le informazioni che il paziente ha il
diritto di ricevere per poter operare la sua scelta, assumendosi
nel contempo la responsabilità del trattamento da lui proposto
sulla base delle proprie più profonde convinzioni etiche.
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