Ospedale per intensità di cura e Cardiologia


Francesco Bovenzi

Divisione di Cardiologia Ospedale Campo di Marte Lucca


Quello che subito colpisce è che il nuovo Ospedale sembra non prevedere più reparti, divisioni e servizi autonomi in spazi ben definiti e luoghi di cura, bensì grandi Aree di accorpamento costituite da strutture funzionali flessibili (numero di posti letto), quantitativamente dinamiche e, quindi, modellate intorno alle esigenze funzionali dei pazienti. Viene, di fatto, rovesciata la tradizionale organizzazione assistenziale ospedaliera, fino ad oggi fondata sulla specialità e identità del reperto, gradualmente superata da una riduzione e concentrazione di posti letto in un insieme di setting costituiti da cosiddetti “letti funzionali”: flessibili e dinamici nella gestione clinico-organizzativa. Questo modello assistenziale per intensità di cure, realizzato sui principi di appropriatezza, viene presentato come uno strumento operativo necessario per governare sia il processo di riconversione del 60% dell’attuale attività eseguita in ricovero ordinario verso un regime di trattamento di ricovero diurno o ambulatoriale, sia la crescente domanda di assistenza a maggiore intensità.


 

La realtà normativa

L’Ospedale per intensità di cura si colloca in continuità con un generale cambiamento dell’Ospedale, sempre più specialistico e tecnologico, volto a identificarsi come un luogo di cura dell’acuzie, ma aperto e inscindibile da un’attiva e autonoma riorganizzazione territoriale dell’assistenza. All’Ospedale moderno si chiede di mettere al centro la persona e le sue necessità, di aprirsi al territorio e di integrarsi con la comunità sociale. Per rispondere a tale mandato la legge regionale 40/2005, che disciplina l’assistenza sanitaria in Toscana, prescrive questo tipo di modello organizzativo con un concreto dominio dell’organizzazione sulla clinica.

Il nuovo Ospedale promuove un approccio incentrato sul bisogno del singolo, garantendo assistenza continua e personalizzata, percorsi multiprofessionali e multidisciplinari, nonché riferimenti sanitari certi e appropriatezza nell’uso delle risorse. Le strutture organizzative titolari di funzioni operative restano dotate di piena responsabilità e autonomia tecnico professionale, ed è previsto per esse il progressivo superamento del reparto differenziato secondo la disciplina.

L’Ospedale organizzato per intensità di cure, strutturato per Aree in base a un fabbisogno assistenziale omogeneo, secondo un ordine di complessità, definisce un nuovo paradigma del concetto di cura: in questo modello l’unitarietà delle componenti cliniche ed organizzative (ovvero il concetto di cura) è funzionale. Infatti, il bisogno di assistenza si separa, secondo un parametro di intensità dal legame abitualmente sincrono con il percorso clinico, mentre le responsabilità cliniche si scindono da quelle gestionali, che sembrano divenire quelle prevalenti e, in particolare, nelle fasi organizzative. Non è messa in discussione l’efficacia del modello medico-specialistico (qualità e sicurezza in relazione alle prestazioni erogate), ma l’efficienza (prestazioni in rapporto alle risorse utilizzate) e la sua sostenibilità sistemica, proprio a partire dall’auspicato risparmio economico.

La Legge Regionale 40/2005 della Toscana prevede, nei tre anni successivi alla sua entrata in vigore, che le Aziende Sanitarie Locali procedano alla riorganizzazione degli Ospedali zonali per intensità di cura. Questo vuol dire che nelle aree di degenza si verificherà un graduale superamento dell’organizzazione tradizionale dei reparti, differenziati secondo un criterio rigidamente specialistico, con conseguente riduzione/rimodulazione dei posti letto.

Il nuovo Ospedale per intensità di cure, concepito su diversi livelli di organizzazione in base alla tipologia delle cure, mira ad offrire riposte dinamiche, veloci, incentrate sui reali bisogni di salute. Tre sono i livelli più importanti su cui si fonda l’organizzazione: il livello 1 delle degenze intensive e semi-intensive, in una parte delle quali esisterebbero le nuove aree di riferimento dell’Unità di Terapia Intensiva Cardiologica tradizionale (UTIC), il livello 2 delle degenze per acuti, con aree medica, chirurgica e materno infantile e il livello 3 delle degenze post-acuzie. A queste si aggiungerebbero un’area ambulatoriale a ciclo diurno con degenze di day surgery, di day hospital e di day service e gli spazi per le abituali attività ambulatoriali. L’accesso ai livelli 1 e 2 avviene attraverso il Dipartimento di Emergenza Urgenza o diretto dal Pronto Soccorso, mentre l’accesso elettivo e programmato è previsto per gli altri livelli.

L’intensità di cura dovrebbe rappresentare una dimensione dell’assistenza non separabile dai percorsi clinici specificamente professionali e qualitativi che si compendiano, si danno vicendevole sostegno, hanno vita e forza nel lavoro in equipe multispecilistiche di medici (non culturalmente simili: principio della multisciplinarietà), infermieri ed altri addetti all’assistenza. Il valore del gruppo multidisciplinare si dovrebbe fondare, oltre che nel raccordo dei saperi e delle pratiche, nell’interazione, nella conoscenza personale degli operatori e nel rapporto di reciproca fiducia tra le diverse discipline.


 

Il razionale e lo scenario assistenziale

L’Ospedale per intensità di cura sembra vivere tra una ragionevole razionalità delle scelte e una conflittualità intrinseca propria di un modello generalista, che stride e che conduce verso una progressiva e pericolosa frammentazione dei percorsi assistenziali, a cominciare da quelli cardiologici. Il modello in definitiva sarebbe concepito per passare dalla cura della malattia di organo e apparato, alla presa in carico globale dei problemi di salute del paziente. In questa logica assistenziale esisterebbe un più ragionevole utilizzo del personale (la razionalità), garantito da infermieri assegnati, dedicati non per reparto, ma per Area funzionale. Il paziente è immaginato al centro di ogni attività con tutti gli specialisti necessari al caso, che guidati dalla figura del medico tutor, seguono i problemi clinici secondo la logica già indicata della multidisciplinarità dell’intervento.

Il paziente viene ospedalizzato in base alla tipologia delle cure di cui ha bisogno ed è accettato dal Pronto Soccorso o direttamente dal Dipartimento di Emergenza-Urgenza con un indirizzo di attribuzione assistenziale che rimane schiettamente clinico. A questo punto, viene preso in carico da un medico specialista individuato al momento del ricovero, definito appunto tutor, insieme ad un infermiere referente. Queste figure, assimilabili simbolicamente a due “angeli custodi”, prenderebbero interamente in carico il paziente nel gestire i percorsi clinici e gli aspetti relazionali, i rapporti con i parenti, essendo quindi, sempre “visibili”, identificabili e disponibili per colloqui informativi, anche con il curante.


 

Le ricadute pratiche

Il presupposto che spinge le Istituzioni verso la ricerca di nuovi modelli assistenziali è insito nel progresso medico e nella moltitudine di interventi, di diagnosi e di efficaci cure che hanno generato da un lato un insostenibile aumento dei costi del sistema salute, dall’altro una mistificazione dello stesso ruolo del medico e del suo storico rapporto “umanizzante” con il paziente. I servizi sanitari rispondono a domande sempre crescenti in merito ai bisogni assistenziali, che oggi sembrano persino tendere verso un’etica falsata e imperante, fatta propria dalla disinformazione, fondata quasi sulla richiesta di ”immortalità”, ovvero della sconfitta/dominio della malattia come causa “precoce” di morte, mistificando, con ciò, quell’umanesimo della medicina per cui l’uomo non deve morire perché si ammala, bensì si ammala perché protagonista di un’esistenza terrena con tutta la sua cagionevolezza.

All’identità e unitarietà culturale di una disciplina il rischio è quello di sostituire una sorta di nuova organizzazione sanitaria più generalista, frammentata e monocratica. Inoltre, al dualismo medico-paziente, viene affiancato un nuovo dualismo, quello di infermiere-paziente, ancor più evidente ed articolato di come non sia cresciuto oggi, anche grazie alla spinta culturale e innovativa dell’ANMCO. Un ridimensionamento non concordato e non controllato dell’assistenza al cardiopatico, privo di una logica di organizzazione in reti regionali pianificate per l’acuto come per il cronico, a spese di generiche cure sub-intensive, significherebbe la perdita di un grande patrimonio assistenziale e culturale, come quello delle UTIC, fin qui conseguito dalla cardiologia italiana.


 

La fragile continuità assistenziale

Esiste un problema di continuità assistenziale, che non sembra avere nel modello proposto una risposta organizzata. Il problema è inevitabile nei percorsi multidisciplinari, ma riguarda anche l’operatività delle singole Strutture Organizzative Professionali (SOP).

In queste ultime è evidente che la continuità assistenziale dovrebbe essere un requisito "di sistema" e non può essere garantita ovviamente da nessun singolo operatore (tutor), né tanto meno dal fatto che il paziente rimanga materialmente ricoverato sempre nello stesso letto. Gli obiettivi intermedi previsti e necessari a dare forza alla continuità sono: la cartella clinica unica (preferibilmente informatizzata), i protocolli di comunicazione, il monitoraggio dei risultati, la cultura della comunicazione (anche verso il medico di famiglia).

In generale, appare evidente che una dimensione culturale e scientifica non può essere sopraffatta da una visione prevalentemente organizzativa. La "cultura di gruppo" del modello per intensità di cura costituito da equipe specialistiche, dovrebbe utopisticamente elevare a valore anche qualità e competenze cliniche di ciascuna disciplina, oltre all'eccellenza e competenza professionale specialistica di ognuno, che cresce e opera nel gruppo culturale secondo percorsi definiti di diagnosi e cura.

Dentro questa cornice, un'organizzazione che permette al paziente di avere un medico di riferimento, in grado di impostare il percorso diagnostico-terapeutico e di verificarne lo svolgimento, non può rappresentare un passo avanti nella qualità delle cure erogate, o forse nel miglioramento del rapporto medico-paziente. La creazione della figura del “tutor” deve essere compatibile con l’organizzazione complessiva delle SOP, sia per quanto riguarda la ripartizione dei carichi di lavoro (turni di servizio, guardie, reperibilità etc), che l’esigenza di valorizzare professionalità e carriera di ognuno.

In definitiva, l'essenza dell'organizzazione per intensità di cure è nell'assetto variabile dei posti letto, che non sono assegnati all’Unità Operativa, definita come SOP, ma all'Area. Infine, potrebbe accadere che l’autonomia professionale dell'infermiere rispetto al medico e alla SOP potrebbe generare conflitto di competenze e di ruoli assistenziali.


 

La riconversione e il ruolo dei piccoli Ospedali

Una simile riorganizzazione non può ignorare nuovi indirizzi sui piccoli ospedali e sull’adozione dell’organizzazione per intensità di cura e riqualificazione per questi presidi ospedalieri. Da un’analisi condotta sulle attività svolte presso i piccoli ospedali della Toscana, citata anche nel nuovo piano regionale, emerge che essi ricoprono un ruolo assai rilevante sia nell’ambito della gestione dei ricoveri internistici (per riacutizzazione di patologie croniche, in particolare neurologiche e cardio-respiratorie), sia nell’ambito della patologia elettiva chirurgica.

La rete ospedaliera regionale, sostegno e forza del piccolo Ospedale, dovrebbe essere interessata da un profondo processo di rimodulazione teso a migliorare la qualità dell’assistenza, nel rispetto di un equilibrio e ridistribuzione delle risorse a disposizione. Questo sviluppo dovrebbe costituire il prioritario presupposto per una configurazione dell’Ospedale fatta per acuti, ovvero come risorsa estrema, da usare in caso di reale bisogno e per il tempo strettamente necessario. Perché questo accada è prioritario il sostegno del territorio organizzato per il cronico, prevedendo l’operatività di strutture ospedaliere intermedie o a media intensità di cura, nel quale il ruolo della Cardiologia potrebbe essere rilevante, come quello dell’oncologia e della chirurgia elettiva, per l’importante peso epidemiologico di queste patologie.

Va peraltro aggiunto che è giusto difendere una filosofia fondata sulla distinzione del peso assistenziale per garantire un’offerta ospedaliera necessariamente parcellizzata come nell’acuzie, esiste, infatti, una difficoltà stante i limitati bacini di utenza, e quindi per la tipologia e numerosità della casistica trattata, di garantire nel tempo la manutenzione, il perfezionamento, la skillness dei professionisti (vedi laboratori di interventistica), oltre che a raggiungere quei livelli di soglia necessari a minimizzare i rischi per i pazienti e per gli stessi operatori.

Nel contempo, come ricordato, cresce significativamente la patologia cronica e multiorgano, legata all’età avanzata, con problemi di salute che devono essere assistiti nel tempo da equipe professionalmente diverse. Il potenziale rischio di tale modello è la ghettizzazione clinica dall’area ospedaliera per queste patologie, senza l’organizzazione di un’adeguata rete sanitaria ed assistenziale di supporto e di collegamento (Chronic Care Model). Occorre, in sintesi, far evolvere l’intera rete, trovando punti di equilibrio ulteriori che sappiano condurre il “sistema” verso un maggior coinvolgimento di tutti i livelli assistenziali, rimodulando i servizi sanitari ad essa collegati.


 

I ragionevoli dubbi

Lo scenario della Cardiologia, come della Medicina, è radicalmente cambiato negli ultimi decenni, e non solo per il progresso tecnologico e scientifico, ma anche per i cambiamenti epidemiologici, sociali, professionali a tutti i livelli di programmazione e politica sanitaria. Il ragionevole dubbio che spinge a sottolineare l’importanza della competenza maturata negli anni è il frutto dei risultati conseguiti in termini di significativa riduzione della mortalità cardiovascolare in Ospedale.

La Cardiologia rischia di essere “travolta”, ridimensionata e dimenticata nella nuova riorganizzazione ospedaliera; essa va difesa nella sua integrità e identità di ruolo e forza nell’Ospedale. Il modello sanitario per intensità di cure, così come presentato e concepito vive una certa conflittualità nelle scelte imposte che rischiano di condurre paradossalmente verso una frammentazione delle discipline e peggio, come già sottolineato, degli stessi percorsi assistenziali. Esiste la grave e subdola criticità di un “ritorno al futuro” che per primi criticamente evidenziamo, proprio mentre ci approntiamo a sostenere, governare e gestire questo nuovo impianto organizzativo. Non è possibile ignorare i progressi della scienza e delle sue più feconde applicazioni, trovandoci proiettati nei fatti da un’organizzazione ospedaliera, lontana dalla clinica, dalla ricerca e nei fatti superata da svariati anni: da quando esisteva solo la Medicina Interna e la Chirurgia Generale.

Cambiano i tempi, ma oggi non basta evidenziare la carenza di risorse e i problemi di difficile gestione economica per guidare nuove scelte di tutela della salute che non possono reggere il confronto con la nostra cultura e con il progresso della scienza. Un modello non sostenibile stante l’attuale formazione del medico offerta nelle Scuole di Specializzazione, troppo orientate verso un indirizzo esclusivo di competenza d’organo, e allo stesso tempo eccessivamente generaliste le scuole di Medicina Interna. E poi che ne sarà dell’integrazione tra nursing di ieri e di oggi che prevede la Laurea in Scienza Infermieristica? Il modello sembra essere fragile e impreparato nelle persone e nei luoghi di cura, ma la riorganizzazione avviata, vissuta come sfida da vincere e a cui tendere e adattarsi, tutto travolge e modella auguriamoci non a scapito della salute dell’utenza.

Il rispetto verso la razionalizzazione dell’esistente, che eviti le duplicazioni o i posti letto superflui con ridimensionamento dell’assistenza ospedaliera è un dovere che le Istituzioni dovrebbero condividere non solo con le sigle sindacali, ma anche con le Società Scientifiche, uniche depositarie del divenire della ricerca, delle nuove evidenze e delle loro applicazioni e raccomandazioni. La riduzione di medici con conseguente riconversione professionale, la concentrazione di posti letto, il progressivo calo del rapporto medici/infermieri ci espone al rischio di un ritorno ad outcome clinici disattesi, verso cittadini che richiedono assistenza qualificata in funzione dei bisogni di salute. E così, la cancellazione dei reparti con la loro trasformazione funzionale in Aree, il rischio di un’ulteriore spinta verso la frammentazione delle discipline, la gestione di percorsi a sfondo più organizzativo che clinico, potrebbero nell’immediato futuro non garantire tutti i requisiti di percorso, continuità ed efficienza delle cure.

Che ne sarà dei progressi in tema di cardiologia invasiva, di aritmologia interventistica, di nuove tecniche di imaging, di una semeiotica ormai dimenticata e propria di un’antica, ma sempre attuale cultura cardiologica? Quelle conoscenze approfondite dell’anatomia, della fisiopatologia, della clinica sono sempre state una garanzia e un’espressione di un’insostituibile cultura legata alla disciplina. E che ne sarà, infine, della ricerca clinica? Un modello GISSI del fare ricerca, modello che per anni ha fatto scuola nel mondo, sarebbe oggi improponibile, superato, ingestibile. Le malattie del cuore richiedono perizia, percorsi esaustivi e rapidi che se non ben gestiti tra cardiologi possono generare cronicità, irresolutezza diagnostico-terapeutica, accrescendo negli anni quel peso assistenziale che tutti vorremmo “alleggerire”.

Non dimentichiamo anche che il cittadino in questi anni ha imparato a far suo il bisogno di sentirsi protetto da un’assistenza qualificata e specialistica, cui ha fatto eco una fidelizzazione ai servizi sanitari della sua realtà. Trascurare questo semplice bisogno espone al rischio di perdita di credibilità, di fuga da un sistema pubblico arido, generico e disattento. Le evidenze scientifiche sono concordi nel suggerirci che sarebbe un grave errore semplificare il nostro modello assistenziale, come un insieme differenti procedure erogate attraverso singole consulenze specialistiche.

Non serve sfoderare una nostra difesa corporativa della disciplina, non credo sia questo lo snodo delle nostre riflessioni, di queste in particolare; si cerca solo di discutere, far ragionare le Istituzioni e governare insieme il necessario cambiamento a difesa dei progressi fin qui conseguiti. Abbiamo disponibilità di interventi terapeutici (angioplastica, stent coronarici, defibrillatori, ultrafiltrazione, contropulsazione, pacemaker per lo scompenso) che sono in grado di modificare in misura importante la prognosi e la qualità di vita di tanti pazienti, anche molto gravi. Si tratta di procedure costose che tuttavia, solo se utilizzate con massima appropriatezza, risultano essere associate ad un favorevole rapporto di costo-efficacia.

Quando la patologia cardiologica è predominante il reparto di Cardiologia deve restare l’unica sede appropriata per la gestione del quadro clinico nella sua complessità. In questa ottica, d’altronde, l’operato del Cardiologo non può essere ridotto a fornitore di prestazioni professionali avulse dal contesto clinico complessivo, ancorché di elevato profilo diagnostico e terapeutico. Le superspecialità della Cardiologia possono trovare una loro collocazione appropriata solo se all’interno delle Unità Operativa di Cardiologia o dei Dipartimenti Cardiologici che oggi restano il nostro più auspicabile modello di riferimento organizzativo.


 

L’indispensabilità del Dipartimento cardiovascolare

Nel rispetto della diversa missione, anche per il modello di intensità di cura rimane valida la filosofia di fondo, che pone al centro il cittadino e invoca una risposta organizzativa commisurata ai bisogni in un ambito di competenza professionale e disponibilità di risorse. Si dovrebbe, quindi, prevedere un percorso di applicazione rispettoso di un’organizzazione dipartimentale.

Ovunque è prevista un’organizzazione funzionale il cui criterio guida è la logica dei Dipartimenti, basata su percorsi affini e sull’inscindibilità delle attività assistenziali, della didattica e della ricerca. Secondo questa premessa, appare poco chiara una mancata pianificazione dei dipartimenti omogenei d’organo, mentre sembrano essere privilegiati nell’intensità di cura logiche dipartimentali di tipo gestionale, essenzialmente più verticali e non rispettose dei modelli ANMCO.

Un’organizzazione cardiologica tutta orizzontale, tra strutture interospedaliere e tra queste e territorio, sarebbe in grado di rispondere più efficacemente alle esigenze di base nell’acuto come nel cronico: dall’emergenza/urgenza, alla diagnostica non invasiva di qualità e al follow up del cardiopatico noto. Stesso ambito culturale, stesso linguaggio, stessi obiettivi di salute, stesse professionalità, e poi ancora aspetti rilevanti come la formazione, la ricerca scientifica e l’uso appropriato delle moderne tecnologie.

In un ambito dipartimentale cardiovascolare potrebbe realizzarsi il massimo livello di integrazione interospedaliera nell’ambito aziendale, capace di generare dì cultura, grazie allo sviluppo di sistemi informatici, osservatori epidemiologici territoriali, sistemi di verifica della qualità, elaborazione di linee guida condivise e diffusione capillare di programmi di aggiornamento e formazione.

Una risposta Istituzionale opportuna sarebbe stata per noi quella di puntare ad un’implementazione di Dipartimenti cardiovascolari finalizzati ad ipotesi progettuali specifiche fondate sull’efficienza, sulla completezza dei percorsi diagnostico-terapeutici erogabili e sulla concreta continuità per l’assistenza. Questa tipologia organizzativa conterrebbe in sé la totalità dei percorsi epidemiologicamente rilevanti, come quelli propri delle malattie di cuore. E’ con questo obiettivo che le Cardiologie dovrebbero essere organizzate, indipendentemente dalla gradualità delle cure, anche in ottica di interscambio globale di risorse, comprese quelle umane.


 

Ripartire dalle UTIC

La straordinaria evoluzione delle conoscenze e della tecnologia ha contribuito allo sviluppo delle superspecialità con un forte impatto nella diagnosi e nella terapia delle malattie cardiovascolari. Esiste il rischio che tale formidabile progresso identifichi la cura con la semplice erogazione di prestazioni complesse ad alto contenuto tecnologico.

All’orizzonte si profila una sanità molto più fragile di ieri, paradossalmente non al passo con il progresso, tanto da indurci istintivamente verso una sorta di mobilitazione preoccupata a cominciare dalla difesa delle UTIC. Di fatto, inspiegabilmente cominciamo a lamentare la cancellazione di posti letto cardiologici e la diluizione degli stessi in Aree generiche di cure semi-intensive. Come Società Scientifica ci chiediamo: che fine farò il nostro “progresso”?

Oggi sappiamo che le UTIC rivestono un ruolo centrale nella rete assistenziale del cardiopatico critico, rappresentando la sede unica e più appropriata per la cura e la gestione di tutte le emergenze cardiovascolari. La diffusione delle UTIC in Italia, come emerge dall’ultimo censimento FIC 2005, rimane ancora buona con la presenza di 411 unità omogeneamente diffuse su tutto il territorio nazionale, numericamente adeguate per il fabbisogno (una ogni 136.000 abitanti, un letto di UTIC ogni 22.000 abitanti). In alcune realtà, di fatto, comincia ad essere messa in discussione la legittimità dell’esistenza delle stesse, a cominciare da quelle non dotate di Emodinamica (circa il 50%).

Le superspecialità cardiologiche concentrate nell’intensità di cura, legate in parte alle competenze interventistiche e in parte alle competenze intensivistiche, sono funzionali alla centralità della clinica del malato e dovrebbero operare in modo integrato nell’ambito di una logica consequenzialità di percorsi che parte dal domicilio, transita nelle UTIC Hub, per finire alle Unità Operative di media e alta intensità di cure in una rete dipartimentale.

E’ indispensabile ripartire dalle UTIC non separandole dai Laboratori di Emodinamica e dalle Cardiologie, queste ultime non necessariamente di uno stesso Ospedale, bensì di uno stesso Dipartimento interaziendale. Aleggiano, inoltre, sulla nostra disciplina semplificazioni assistenziali generaliste proprie di altre strutture come le Terapia Intensiva Medica, di Emergenza, di Pronto Soccorso che non possono affatto garantire appropriate cure cardiologiche.

Le strutture di Cardiologia Interventistica e di Elettrofisiologia non devono essere staccate dai Dipartimenti Cardiologici o dalle Unità Operative di Cardiologia. In alcune realtà regionali molto del moderno imaging e persino le emodinamiche restano confinate o affidate alle Radiologie. I Servizi di Diagnostica Radiologica per immagini devono utilizzare in modo integrato con le Unità Operative di Cardiologia gli strumenti di livello più avanzato, quali la TAC e la RM cardiaca, onde evitare che l’utilizzo parziale e separato dalla clinica delle nuove tecnologie di imaging produca una visione incompleta della patologia, svantaggiosa per l’utente cittadino/paziente e riduttiva per le potenzialità della metodica stessa. Ed ancora, che dire delle Divisioni di Medicina d’Urgenza e Pronto Soccorso che hanno difficoltà ad operare secondo appropriatezza cardiologica; resta carente la definizione di protocolli e percorsi terapeutici condivisi che prevedano in molte condizioni l’irrinunciabilità della consulenza cardiologica.

Sulla base delle riflessioni esposte è giusto chiedere con forza, nell'interesse dei pazienti, che la programmazione nazionale sia riconsiderata in una più innovativa logica che preservi i reparti di UTIC con le Cardiologie, puntando ad una riorganizzazione dipartimentale capace di porre il cuore del paziente cardiopatico al centro di un percorso assistenziale evoluto e culturalmente specifico. La gestione ottimale del paziente con infarto dovrebbe prevedere nell’immediato futuro una nuova filosofia di rete integrata tra 118, Pronto Soccorso ospedalieri, UTIC Hub dotate di Laboratorio di Emodinamica interventistica ed UTIC Spoke. Queste ultime, nella nuova riorganizzazione ospedaliera, rappresenterebbero un fondamentale riferimento assistenziale, che resta forte nella logica della nuova rete unica, forse non più concepita secondo superati criteri di Hub e Spoke.

All’intervento terapeutico vissuto solo in una complessa prestazione (esempio angioplastica primaria), proprio del modello Hub e Spoke, verrebbe, di fatto, sostituito un definito percorso che dall’Ospedale per acuti, secondo un modello dipartimentale e di Chronic Care Model, transiterebbe verso un logico percorso di carico globale dell’assistenza, ora dell’alta, poi dell’insostituibile successiva media intensità di cura in altra struttura “intermedia”. Questa temporalità, tuttavia, potrebbe non essere immediata, ma certamente fondamentale nel successivo follow up del caso, come nella difficile gestione di tante problematiche cliniche cardiovascolari a minore criticità assistenziale o elettive.

Il nostro problema è far comprendere alle Istituzioni che oggi possiamo dare contenuto e forza a tutti i centri vitali di assistenza cardiologica, rimodulando un nuovo modello di rete assistenziale di interscambio, condivisione gestionale, clinica e organizzativa con l’alta intensità di cura cardiologica. forte solo se esiste lo strumento dei Dipartimenti Cardiovascolari di dimensione Aziendale/Provinciale.

Una task force della Società Europea di Cardiologia (ESC), in collaborazione con il Working Group dell'Acute Cardiac Care ha redatto un documento di consenso al fine di produrre raccomandazioni sulla modera struttura, organizzazione e funzione delle terapie intensive cardiologiche e delle unità di cure intermedie (Hasin Y, Danchin N, Filippatos GS, et al. Recommendations for the structure, organization, and operation of intensive cardiac care units. Eur Heart J. 2005; 26:1676-82). Ciò includeva i requisiti minimi che un cardiologo di una moderna terapia intensiva cardiologica europea (molto simile alle nostre intensità di cura) dovrebbe avere per essere certificato dall'ESC. Tali requisiti, però, oggi non sembrano rispecchiare le competenza cliniche del cardiologo italiano di terapia intensiva, in quanto profondamente diverse sono le specificità, i modelli organizzativi e la formazione universitaria e professionale che sono attualmente garantite nel nostro Paese e che quindi dovrebbero essere completamente riorganizzate, riqualificate e stravolte nei prossimi decenni.