LA PERSONALIZZAZIONE DELLA TERAPIA
DELL’IPERTENSIONE ARTERIOSA
Michele A. Tedesco, Francesco Natale
Dipartimento di Cardiologia, Seconda Università di Napoli,
A.O.R.N. Monaldi
L’ipertensione arteriosa
rappresenta oggi la patologia con maggiore prevalenza tra le
malattie croniche ed insieme agli altri fattori di rischio essa
concorre a determinare il rischio cardiovascolare globale la cui
corretta valutazione ha notevoli ripercussioni sulle scelte
cliniche e terapeutiche. Vengono definiti ad alto rischio i
pazienti con valori di pressione ≥ 180/110 mmHg, tre o più
fattori di rischio, un precedente evento cardiovascolare (CV),
diabete o presenza di danno d’organo (ipertrofia ventricolare
sinistra, ispessimento miointimale dei vasi carotidei, danno
renale lieve). Studi prospettici hanno dimostrato che, anche con
valori di PA normali, i pazienti possono avere un rischio CV
molto elevato in presenza di uno di questi fattori. L’esame
elettrocardiografico dovrebbe essere parte della valutazione
routinaria dei soggetti ipertesi per individuare la presenza di
ipertrofia ventricolare sinistra, ischemia, difetti di
conduzione e aritmie, pur essendo bassa la sensibilità della
metodica nell’identificare la presenza di ipertrofia
ventricolare sinistra (IVS). L’indice Cornell espresso come
prodotto voltaggio-durata del QRS si è rivelato di grande
utilità nella individuazione dei pazienti con IVS passibili di
essere inclusi negli studi clinici. L’elettrocardiogramma può
inoltre essere utile per identificare aspetti di sovraccarico
ventricolare (strain) indicativi di un aumentato rischio
cardiovascolare, ischemico e aritmico. La valutazione
ecocardiografica è sicuramente più sensibile rispetto a quella
elettrocardiografica nell’identificazione della presenza di IVS
e nel predire il rischio cardiovascolare. La disponibilità di
esami ecocardiografici è significativamente aumentata in Europa,
e nei casi in cui le decisioni terapeutiche siano incerte tale
esame può essere utile nel facilitare la definizione del profilo
di rischio globale del soggetto e indirizzare il conseguente
trattamento. La classificazione
dell’ipertrofia in eccentrica e concentrica o il riscontro di
rimodellamento concentrico stimato dal rapporto tra spessore
della parere e raggio della cavità (valori >0,45 definiscono un
profilo concentrico) si sono anch’essi rivelati predittori del
rischio CV. In aggiunta, l’ecocardiografia fornisce gli
strumenti per una valutazione della funzione sistolica del
ventricolo sinistro tra i quali va inclusa la frazione di
accorciamento centroparietale, che è stata proposta come un
fattore predittivo della incidenza di eventi cardiovascolari.
Inoltre, lo stesso approccio permette un esame della distensibilità
diastolica del ventricolo sinistro (la cosiddetta “funzione
diastolica”). Esiste un grande interesse intorno alla
possibilità che aspetti ecocardiografici riconducibili alla
“disfunzione diastolica” possano risultare predittivi della
comparsa di dispnea e ridotta tolleranza allo sforzo in assenza
di segni di disfunzione sistolica, come si osserva
frequentemente nei pazienti ipertesi anziani (il cosiddetto
“scompenso cardiaco diastolico”). In aggiunta,
l’ecocardiografia può fornire evidenze di difetti di
contrattilità della parete ventricolare conseguente alla
presenza di ischemia, di un pregresso infarto del miocardio o di
disfunzione sistolica.
La valutazione
ultrasonografica delle arterie carotidi completata dalla
misurazione dello spessore del complesso intimamedia e dalla
ricerca di placche ateroma siche si è rivelata in grado di
predire la incidenza di ictus e infarto miocardio. Una recente
revisione dei dati suggerisce che tale esame può rappresentare
un utile completamento della valutazione ecocardiografica
rendendo più precisa la stratificazione del rischio nella
popolazione ipertesa. L’interesse crescente per la pressione
sistolica e la pressione differenziale come fattori predittivi
di eventi cardiovascolari, stimolato dai risultati degli studi
che hanno dimostrato il beneficio della riduzione della
pressione sistolica nella popolazione anziana con ipertensione
sistolica isolata, ha favorito lo sviluppo di tecniche per la
misurazione della compliance arteriosa delle grandi arterie. Un
grande numero di evidenze fisiologiche, fisiopatologiche e
terapeutiche è stato accumulato in questo ambito. L’evidenza che
la pressione aortica (e conseguentemente la pressione trasmessa
a livello cardiaco e cerebrale) possa essere diversa rispetto a
quella misurata a livello brachiale, possa essere predittiva di
eventi clinici e possa venire influenzata in maniera diversa dai
vari farmaci antipertensivi. Più recentemente un grande
interesse si è sviluppato per la possibilità che la disfunzione
o il danno endoteliale possa rappresentare un marker precoce di
danno CV.
La diagnosi di
danno renale indotto dall’ipertensione si basa sul riscontro di
elevati livelli di creatinina sierica, di una riduzione
(misurata o calcolata) della clearance della creatinina o del
riscontro di una elevata escrezione urinaria di albumina al di
sotto (microalbuminuria) o al di sopra (macroalbuminuria)
del limite delle
metodiche di laboratorio per definire la presenza di
proteinuria.
Un lieve
incremento della creatinina sierica e della uricemia può
osservarsi talvolta quando la terapia antipertensiva viene
istituita o intensificata, ma ciò non deve essere considerato
come un indice di deterioramento renale progressivo. La presenza
di iperuricemia viene frequentemente osservata nella popolazione
ipertesa non trattata e risulta correlata alla presenza di
nefrosclerosi. Mentre un aumento della creatininemia indirizza
verso una riduzione della filtrazione glomerulare, un incremento
della escrezione urinaria di albumina o di proteine suggerisce
una alterazione della barriera deputata alla filtrazione
glomerulare. Nei pazienti ipertesi non diabetici la presenza di
microalbuminuria, anche quando inferiore ai valori soglia di
riferimento, si è dimostrata capace di predire gli eventi
cardiovascolari, ed è stata recentemente descritta nella
popolazione generale una relazione continua tra escrezione
urinaria di albumina e la mortalità CV e non CV. Il riscontro di
una alterazione della funzione renale in un paziente iperteso,
espressa da uno qualsiasi dei parametri sopra ricordati, è
frequente e rappresenta un elemento in grado di predire in modo
accurato lo sviluppo di eventi CV futuri e il decesso del
paziente stesso. In base ai risultati di diversi trials, nei
pazienti ad alto rischio, la terapia antiipertensiva deve essere
iniziata anche con valori inferiori a 140/90 mmHg per cercare di
raggiungere valori inferiori a 130/80 mmHg. Questo obiettivo
terapeutico può richiedere l’uso di più farmaci anche in terapia
di combinazione sin dall’inizio per l’importanza del fattore
tempo nel prevenire gli eventi CV.
Il limite più importante dei
trial clinici è tuttavia probabilmente rappresentato dalla sua
durata temporale necessariamente ridotta nel tempo (nella
maggioranza dei casi 4-5 anni), mentre le aspettative di vita, e
quindi le aspettative di durata del trattamento, sono nel caso
di pazienti di mezza età pari a 20-30 anni. È tuttavia
possibile valutare i benefici a lungo termine della terapia e le
differenze di benefici tra classi di farmaci diverse mediante
l’impiego dei cosiddetti endpoint intermedi (e cioè le
modificazioni del danno d’organo subclinico indotte dal
trattamento). Numerose sono le
evidenze che documentano che la regressione o il rallentamento
della progressione del danno d’organo subclinico si associ ad
una riduzione di eventi cardiovascolari, e diversi studi
dimostrano che alcune delle suddette alterazioni possano avere
un valore predittivo per lo sviluppo di futuri eventi fatali e
non fatali. Le modificazioni indotte dalla terapia di parametri
metabolici quali il colesterolo LDL o HDL, la potassiemia, la
tolleranza glucidica, lo sviluppo od il peggioramento clinico
dell’insulino-resistenza o del diabete, anche se raramente
hanno effetti evidenziabili clinicamente nel breve corso di un
trial, possono tuttavia avere importanza clinica a lungo termine
nel decorso temporale della vita del paziente.
Il rischio di
eventi cardiovascolari, specie coronarici, è assai diverso nei
due sessi. I risultati dei singoli trial clinici di intervento
non consentono di chiarire se l’effetto del trattamento
antipertensivo nel ridurre il rischio CV sia in qualche modo
legato al sesso del paziente stesso. La metanalisi di sette
studi randomizzati effettuata dal gruppo di lavoro INDANA ha
consentito tuttavia di acquisire informazioni al riguardo. Il
numero complessivo di pazienti valutati è stato pari a 40.777,
con una percentuale di maschi del 49%. Nel sesso maschile il
valore del rapporto di probabilità a favore del trattamento
antipertensivo ha raggiunto significatività statistica nel caso
della mortalità globale (−12%; p=0,01), cerebrovascolare (−43%;
p<0,001) e coronarica (−17%; p<0,01) e per tutti gli eventi
cardiovascolari fatali e non fatali (−22%, p<0,001), gli eventi
ischemici cerebrovascolari (−34%, p<0,001) e coronarici (−18%,
p<0,001). Nel sesso femminile, che in genere presenta un tasso
di eventi inferiore rispetto al sesso maschile, il rapporto di
probabilità a favore del trattamento è risultato significativo
nel caso degli eventi ischemici cerebrovascolari fatali (−29%,
p<0,05) e degli eventi cardiovascolari e cerebrovascolari fatali
e non fatali combinati (−26%, p=0,001 e −38%, p<0,001), ma non
per altri endpoint. Tuttavia, indipendentemente dal tipo di
risultato preso in esame, non si osservarono differenze
significative tra i due sessi per quanto riguarda i rapporti di
rischio tra pazienti trattati e di controllo. Inoltre, poiché
non si notarono interazioni significative tra efficacia del
trattamento e gentilizio è possibile concludere che la riduzione
del rischio cardiovascolare indotto dal trattamento
antipertensivo è simile nei due sessi.
Numerosi studi
hanno valutato gli effetti dei diversi farmaci antipertensivi
sull’ipertrofia ventricolare sinistra associata allo stato
ipertensivo, utilizzando per lo più la metodica ecocardiografica
per valutare la massa ventricolare sinistra. Gli studi ELVERA ,
PRESERVE e FOAM hanno dimostrato una eguale efficacia degli
ACE-inibitori (rispettivamente lisinopril, enalapril e
fosinopril) e dei calcioantagonisti (amlodipina); lo studio
CATCH ha fornito prova di efficacia simile del bloccante
recettoriale dell’angiotensina candesartan nei confronti
dell’ACE-inibitore enalapril. Un certo numero di studi di
paragone tra bloccanti recettoriali dell’angiotensina II e l’atenololo
ha dimostrato la superiorità dei sartanici rispetto ai
β-bloccanti nell’indurre una regressione dell’ipertrofia
cardiaca. Gli effetti favorevoli della regressione
dell’ipertrofia ventricolare sinistra sono dimostrati
dall’evidenza che il processo si associa ad un miglioramento
della funzione sistolica. Tale beneficio è confermato dai
risultati dello studio più ampio e con il più protratto periodo
di osservazione mai effettuato, lo studio LIFE, che ha
evidenziato che la maggiore regressione del grado di IVS, si
associa ad una riduzione dell’incidenza di eventi
cerebro-cardiovascolari.
Numerosi studi
clinici randomizzati hanno valutato in termini comparativi gli
effetti a lungo termine (2-4 anni) di diverse classi di farmaci
antipertensivi sullo spessore della tonaca medio-intimale
dell’arteria carotide. I risultati di tali studi dimostrano in
maniera uniforme che i calcioantagonisti svolgono effetti
favorevoli. Uno studio controllato non ha evidenziato effetti
significativi del ramipril sullo spessore della tonaca
medio-intimale dell’arteria carotide, mentre in un altro studio
si è osservata un significativo rallentamento della progressione
dello spessore mediointimale a livello della biforcazione
carotidea, della carotide interna e comune.
L’analisi dei
trial finalizzati a valutare gli effetti di una più o meno
intensa riduzione pressoria, o della terapia attiva nei
confronti del placebo, ha evidenziato che in pazienti diabetici
con insufficienza renale avanzata la progressione della
disfunzione renale può essere rallentata dall’aggiunta, allo
schema terapeutico già impostato, di un bloccante recettoriale
dell’angiotensina II (losartan o irbesartan) ma non di placebo.
Effetti consistenti legati ad una maggiore riduzione dei valori
pressori sono stati osservati nel caso della proteinuria e
della microalbuminuria.
Una recente
metanalisi condotta in pazienti nefropatici non diabetici,
finalizzati a paragonare tra loro trattamenti antipertensivi che
prevedevano o non prevedevano l’impiego di ACE-inibitori, ha
dimostrato un rallentamento della progressione della disfunzione
renale significativamente maggiore nei pazienti che
raggiungevano in terapia valori pressori pari a 139/85 mmHg
rispetto a quanto osservato nei pazienti i cui valori pressori
erano pari a 144/87 mmHg. Non è tuttavia chiaro se il maggior
beneficio dipenda dall’impiego degli ACE-inibitori, come
suggerito dagli Autori, o piuttosto dal raggiungimento di valori
pressori più bassi. Lo studio AASK, di recente pubblicazione,
non ha consentito di evidenziare in pazienti ipertesi
afroamericani con nefrosclerosi un maggiore grado di
rallentamento della disfunzione renale quando venivano ottenuti
valori pressori di 128/78 mmHg rispetto a 141/85 mmHg. Al
contrario nello stesso studio gli ACE-inibitori si sono
dimostrati più efficaci dei β-bloccanti o dei calcioantagonisti
nel rallentare il declino della filtrazione glomerulare. Sembra
quindi che mentre nei pazienti nefropatici non diabetici
l’impiego di un ACE-inibitore possa risultare più importante
rispetto alla drastica riduzione pressoria, nei pazienti
diabetici l’importanza dei due tipi di intervento terapeutico si
equivalga. Anche in pazienti nefropatici non diabetici è
comunque prudente ridurre in maniera aggressiva i valori
pressori.
I trial clinici
che hanno valutato la comparsa di nuovi casi di diabete nel
corso del follow- up dello studio hanno dimostrato una minor
incidenza di diabete nel caso della terapia con ACE-inibitori e
bloccanti recettoriali dell’angiotensina II. Lo studio ALLHAT
ha anche evidenziato una minore incidenza di diabete nei
pazienti randomizzati al trattamento con amlodipina o lisinopril
rispetto a quanto osservato nei pazienti randomizzati a
clortalidone.
In conclusione, è importante
sottolineare nella scelta dei farmaci per abbassare i valori di
pressione arteriosa è opportuno preferire quelli che agendo
anche sui fattori non pressione dipendenti riducono maggiormente
il rischio CV globale.
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