PROCESSO ALLO STENT MEDICATO: L’ACCUSA
Giannignazio Carbone, Claudia Capozzolo, Maurizio De Maio,
Enrico Russolillo Paolo Capogrosso
UTIC-Emodinamica P.O.San Giovanni Bosco ASL NA1
La cardiologia interventistica
coronarica ha vissuto e vive una grande stagione di innovazioni
tecnologiche iniziate con la tecnica dell’angioplastica
coronarica con il solo pallone, poi superata dall’applicazione
dello stent che, rispetto all’angioplastica semplice, ha dato
migliori risultati sia in acuto che in cronico (1). Infine, con
l’introduzione dello stent medicato si è verificata una
successiva rivoluzione, in quanto con quest’ultimo si è
osservata una riduzione della restenosi da circa il 30% a circa
il 10% secondo le varie casistiche (2). Tale innovazione,
fortemente sostenuta sotto il profilo scientifico e commerciale
dalle aziende, ha generato un forte impatto sull’opinione
pubblica e sulla pratica clinica quotidiana coinvolgendo tutti i
cardiologi interventisti. Dopo circa cinque anni
dall’introduzione in commercio di tali dispositivi medicati, c’è
stato un allarmante dietrofront sull’utilizzo degli stessi, in
quanto era stato osservato un aumento delle trombosi a distanza
dall’applicazione dello stent (3). Tale evento, in molti casi
drammatico in quanto clinicamente si traduce con la morte o
l’infarto miocardico, ha generato una lunga riflessione
sull’argomento, riflessione che è tuttora viva e sofferta in
quanto la restenosi, più frequente con gli stent non medicati
sul piano clinico può determinare più spesso angina, mentre la
trombosi dello stent può generare sindromi coronariche acute e
talvolta la morte del paziente.
L’inizio di questo travagliato
viaggio è cominciato dal momento in cui noi cardiologi
interventisti abbiamo applicato, sulla base dei dati scientifici
prodotti dai trial (Ravel, Sirius, Taxus), nella realtà
quotidiana, e quindi su tutti i tipi di lesioni coronariche
(biforcazione, ostruzione, tronco comune, graft venoso, ostio),
il trattamento che negli studi scientifici era stato eseguito su
lesioni anatomicamente meno complesse ed in condizioni cliniche
meno “impegnative” rispetto a quelle della pratica clinica
quotidiana. Vi è di più: alcuni laboratori per alcuni mesi o
anni hanno trattato tutti i pazienti con stent medicato
ritenendo che il trattare un paziente con l’applicazione di uno
stent non medicato fosse quasi una discriminazione in un momento
in cui tale trattamento sembrava il più efficace nel prevenire
la restenosi ed, in molti casi, l’intervento di cardiochirurgia.
I successivi studi hanno evidenziato però la pericolosità di
tale strategia.
Quali sono i motivi per cui lo
stent medicato risulta un dispositivo più efficace, ed allo
stesso tempo, più pericoloso rispetto allo stent convenzionale?
Lo stent medicato è composto
dalla protesi su cui è applicato un polimero, che contiene al
suo interno un farmaco (sirolimus, everolimus, taxolo,
zotarolims, tacrolimus, ecc) il quale viene rilasciato in
maniera graduale per alcuni mesi o anni sulla parete coronarica,
inibendo così la replicazione cellulare dell’endotelio e della
matrice connettivale sottoendoteliale. Il blocco della
replicazione cellulare inibisce la restenosi, ma impedisce anche
l’endotelizzazione dello stent e, lasciando scoperte le maglie
della protesi, richiede una lunga doppia antiaggregazione per
evitare la trombosi della stessa.
Fattori Clinici
Nella pratica clinica
quotidiana, l’invecchiamento della popolazione ci pone di fronte
a situazioni cliniche complesse in cui il paziente studiato in
sala di emodinamica sempre più spesso presenta più di una
patologia (diabete e sue complicanze, insufficienza renale,
mielodisplasia, patologie a carico dell’apparato digerente o
urogenitale, ecc). L’implicazione, che tali quadri clinici
determinano nella scelta della protesi, ha un peso abbastanza
rilevante in quanto costringe, nel caso di applicazione di stent
medicato, a proseguire una doppia antiaggregazione per un
periodo medio di un anno e talvolta anche di più, pena il
rischio di trombosi a distanza. A tal proposito uno studio
osservazionale di Eisestein et al. su 4666 pazienti sottoposti
ad impianto di stent metallico ed a impianto di stent medicato
ha evidenziato come nei pazienti che erano liberi da eventi
clinici, a 6 mesi ed a 12 mesi dall’angioplastica (e quindi
dall’assunzione di doppia antiaggregazione), l’interruzione del
clopidogrel, nel gruppo stent medicato, era associata ad un
incremento di eventi clinici come morte ed infarto miocardio,
rispetto al gruppo di pazienti con stent medicato che continuava
ad assumere doppia antiaggregazione ed a quello trattato con
stent metallico (4).
Molti pazienti non possono
sostenere una lunga antiaggregazione o a causa di una scarsa
tollerabilità o per la necessità di un intervento chirurgico non
programmato, per cui ora più che mai il cardiologo interventista
deve ponderare la scelta, non dimenticando che per alcune
situazioni particolarmente complesse esiste sempre la valida
alternativa chirurgica. Inoltre, la peculiarità di alcune
situazioni cliniche non è sempre chiara al paziente o a suoi
familiari, per cui sarebbe preferibile in alcuni casi fermarsi a
riflettere ponendo sulla bilancia tutte le alternative,
colloquiando anche con il cardiochirurgo e rendendo edotto il
paziente ed i suoi congiunti delle difficoltà del caso e dei
rischi in acuto (maggiori per l’intervento chirurgico), ma anche
in cronico (maggiori per l’angioplastica) per la gestione della
doppia antiaggregazione e/o della restenosi. Infatti, contributi
scientifici rilevanti hanno identificato alcune situazioni
cliniche, nelle quali aumenta il rischio di trombosi subacute
dopo impianto di stent medicato, come ad esempio l’insufficienza
renale, il diabete, la bassa frazione d’eiezione, l’applicazione
dello stent in biforcazione e soprattutto la prematura
interruzione della doppia antiaggregazione (5). Per tale motivi
il cardiologo interventista ha l’obbligo di verificare la
compliance del paziente a seguire il trattamento indicato,
ovvero la doppia antiaggregazione, ma anche tutte le strategie
farmacologiche e comportamentali di prevenzione secondaria della
cardiopatia ischemica che il paziente deve seguire. A tal
proposito è utile ricordare che l’intervento chirurgico per sua
stessa natura (rivascolarizzazione completa) ha un follow-up
certamente meno impegnativo rispetto alle rivascolarizzazioni
multiple alle quali spesso costringe l’angioplastica
coronarica.
Chirurgia non programmata
Un’intervento chirurgico
maggiore richiede la sospensione dell’antiaggregazione. Secondo
le attuali linee guida, il tempo minimo di doppia
antiaggregazione è di 3 mesi per lo stent a rilascio di
sirolimus e di 6 mesi per lo stent a rilascio di paclitaxel; ma,
secondo le stesse linee guida la doppia antiaggregazione deve
essere prolungata per 12 mesi se non c’è rischio di emorragia,
mentre secondo il parere degli esperti la doppia
antiaggregazione per casi complessi va proseguita il più a lungo
possibile. Secondo l’esperienza di alcuni autori (6) prima di un
intervento chirurgico maggiore è utile sospendere l’aspirina 1
settimana prima e il clopidogrel 5 giorni prima e somministrare
tirofiban per 5 giorni prima dell’intervento, per poi riprendere
aspirina e clopidogrel dopo l’intervento; oppure somministrare
inibitori fino a che il paziente non riprenda la funzionalità
intestinale, nel caso di chirurgia addominale. Tale schema,
applicato con successo a pochi casi clinici, richiede una
collaborazione fattiva tra il cardiologo ed il chirurgo nonchè
il corretto monitoraggio di tali farmaci in un reparto non
avvezzo a gestire antiaggreganti per via endovenosa.
Fattori anatomici e procedurali
L’applicazione dello stent
medicato richiede, oltre alle considerazioni cliniche suddette,
lo studio anatomico preciso dell’albero coronarico. Infatti,
molto spesso lesioni lunghe, biforcazioni, ostii, tronco comune
dubbio, ecc. richiedono un approfondimento con l’ecografia
intravascolare (IVUS) sia in fase diagnostica che in fase
post-impianto, per verificare la corretta espansione di tutte le
maglie dello stent, evitando così di incorrere nella
malapposizione del device (altro fattore prognosticamente
sfavorevole per il rischio di trombosi acuta e subacuta) (7).
Infatti, è stato osservato, da
studi sperimentali con angioscopia, che la mancata adesione
dello stent medicato alla parete vascolare ritarda
l’endotelizzazione della protesi lasciando le maglie dello stent
medicato “nude” e quindi potenzialmente trombogene (8). Invece,
il gap tra gli “struts” dello stent non medicato e la parete
vascolare può essere colmato da matrice extracellulare non
essendoci “in loco” un’inbizione alla proliferazione cellulare.
Per tale motivo, in era di stent medicato, tutti i laboratori
dovrebbero essere forniti di IVUS e di personale qualificato al
suo utilizzo, in modo da verificare, nei suddetti casi
complessi, la corretta apposizione dello stent che è uno dei
fattori che influenzano il suo risultato a distanza.
Indicazione allo studio
angiografico e trattamento delle lesioni coronariche
La larga diffusione dei
laboratori di emodinamica e l’entusiasmo per la risoluzione di
quadri clinici, che in passato richiedevano degenze molto più
lunghe, hanno generato una pericolosa esaltazione da parte dei
cardiologi interventisti ed un eccessivo ricorso alla
diagnostica invasiva da parte dei clinici, per cui sempre più
spesso, pazienti stabili in cui la terapia medica ottimale,
recentemente, ha dimostrato di ottenere gli stessi risultati di
sopravvivenza dell’angioplastica coronarica (9), vengono
indirizzati ad eseguire coronarografia senza dimostrazione di
ischemia o di sede (es. dopo by-pass aorto coronarico). E’
chiaro che la mancanza di filtri può generare l’esecuzione di
angioplastiche inutili sotto il profilo clinico, costringendo
però il paziente ad assumere la doppia antiaggregazione per
lungo tempo.
Infine, è opportuno accennare
alle ostruzione coronariche croniche. Tale tipo di lesione
necessita di un trattamento dedicato che richiede molto spesso
una notevole quantità di mezzo di contrasto, una lunga
esposizione a radiazioni, nonchè un dispendioso utilizzo di
materiali (spesso più aggressivi dei materiali standard) e le
disostruzione riuscite (oggi certamente più di ieri) necessitano
di un elevato numero di stents medicati con inevitabili
sovrapposizioni (overlapping) di maglie (altro fattore che
ritarda la riendotelizzazione) e la successiva doppia
antiaggregazione per un lungo periodo. Per cui, di fronte a tali
considerazioni, è necessario chiedersi quante ostruzioni valga
la pena tentare e quante di quelle che vengono eseguite hanno
un’indicazione chiara con un’ischemia non controllata dalla
terapia medica. Inoltre, non è trascurabile il dato, anche sul
piano di farmacoeconomia, oltre che clinico secondo il quale il
paziente che viene trattato con angioplastica, comunque, deve
proseguire la terapia medica di prevenzione secondaria della
cardiopatia ischemica.
Bibliografia Essenziale
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107(9): 1340-1
9) Boden WE,
O’Rourke RA, Teo KK et al. COURAGE Trial research Group. Optimal
medical therapy with or without PCI for stable coronary disease
N Engl J Med 2007; 356: 1503-16