PONTI MIOCARDICI: DALLA ANTOMIA ALLA CLINICA
Gennaro Santoro, Francesco Meucci, Giovanni Squillantini
SOD “Diagnostica ed interventistica CV”-
Dipartimento Cardiologica e dei Vasi-AOU Careggi, Firenze
I ponti miocardici sono una
patologia congenita del circolo coronarico epicardico, descritta
già nel 1737, la cui rilevanza clinica è stata compresa dopo
l’introduzione della coronarografia nella diagnostica
cardiologica. Con l’avvento dell’angioplastica coronarica e dopo
i recenti progressi nella diagnostica ed interventistica
percutanea (ecografia intra-coronarica, misurazione della
pressione attraverso le stenosi coronariche, stent medicati)
siamo in grado di capire meglio la fisiopatologia di questa
malattia e di offrire ai nostri pazienti interventi terapeutici
spesso risolutivi. Questa messa a punto sarà dedicata
soprattutto agli aspetti più recenti relativi alla diagnostica e
al trattamento dei ponti miocarditi.
Definizione:
Il ponte miocardico si determina quando una banda di
tessuto muscolare cardiaco si sovrammette ad una porzione di una
arteria coronarica, che viene definita “tunnellizzata”.
Incidenza:
esiste grande discordanza fra il dato anatomo-patologico
(incidenza variabile tra il 15-85% delle autopsie) e il dato
angiografico (0,5-2,5% di tutte le coronarografie) a
testimoninamza che soltanto una minima parte dei ponti
miocardici assume rilevanza clinica. Particolarmente frequente
l’incidenza di ponti miocardici nel contesto della
cardiomiopatia ipertrofica (fino al 50% dei pazienti in età
pediatrica e 15% dei pazienti adulti).
Sede:nella
quasi totalità dei casi di interesse clinico l’arteria
interessata è l’interventricolare anteriore. Descritti casi
sporadici con interessamento dei rami diagonali, del ramo
interventricolare posteriore della coronaria destra e del ramo
al margine ottuso dell’arteria circonflessa.
Fisiopatologia:
la riduzione del lume coronarico
ad opera del ponte di tessuto muscolare avviene durante la
sistole, mentre il flusso di irrorazione del miocardio è quasi
esclusivamente diastolico, dunque non è di immediata
comprensione il meccanismo con il quale un ponte miocardico può
portare ad ischemia. Studi angiografici eseguiti fra il 1981 e
il 1991 con attente analisi “frame by frame” hanno dimostrato il
protrarsi di un restringimento del lume (di circa il 40%) per
una durata del 25% del periodo diastolico, dunque era possibile
ipotizzare che a questa riduzione di calibro corrispondesse una
riduzione della riserva coronarica. Questo dato tuttavia è stato
ottenuto soltanto molto recentemente, grazie alle possibilità di
studio offerte dalla introduzione in clinica delle guide
coronariche con trasduttori Doppler per la misurazione diretta
dei flussi e delle pressioni trans-stenotici (flow-wire e
pressure-wire).
I valori basali delle
velocità di picco e medie risultano incrementati (>2vv) rispetto
ai segmenti prossimali e distali al ponte miocardico. Una
correlazione “flow-wire” - angiografia ha stabilito che
l’accelerazione protodiastolica corrisponde al periodo di
riduzione del lume vasale. Inoltre andando a misurare la riserva
di flusso dopo vasodilatazione massimale ottenuta iniettando
adenosina in coronaria, si osserva che a valle dei ponti
miocardici la riserva coronarica è ridotta (valore normale di
riferimento =3 , che scende a 2-2,5 a valle dei ponti
miocardici). L’anatomia stessa del ponte miocardico, in
particolare il suo spessore, la sua lunghezza, la sua sede, è
importante per la genesi dell’ischemia. Nello spiegare la genesi
dell’ischemia miocardica nel paziente con ponte miocardico
sintomatico, non possiamo infine trascurare tutti quei fattori
che accorciando la durata della diastole (tipicamente la
tachicardia) o diminuendo la pressione di perfusione coronarica
(ipotensione arteriosa) o favorendo l’aggregazione piastrinica
possono scatenare o aggravare l’ischemia miocardica in un
paziente portatore di un ponte miocardico.
Aspetti clinici:
sono stati descritti diversi
quadri clinici d’esordio, che vanno dalla morte cardiaca
improvvisa alle sindromi coronariche acute, angina da sforzo,
aritmie minacciose. La presentazione più frequente è comunque
quella dell’angina da sforzo. In questi pazienti i test
provocativi danno dei risultati positivi con ampio range di
variabilità: TE 28-67%. Scinti 33-63%. L’angiografia dimostra
quasi sempre una malattia monovasale non aterosclerotica con una
incidenza di IMA e quadri acuti sovrapponibile rispetto alla
coronaropatia aterosclerotica monovasale.La prognosi a distanza
spesso è influenzata dalla coesistenza di un’altra patologia
cardiaca , infatti circa il 50% dei pazienti con rilievo
angiografico di ponte miocardico ha anche un’altra patologia
cardiaca che influenza la prognosi (coronaropatia
aterosclerotica, valvulopatia, miocardiopatia). Nei casi di
ponte miocardico “isolato” e clinicamente manifesto la prognosi
a distanza è simile a quella del paziente con aterosclerosi
monovasale (o migliore perché il ponte miocardico non ha
tendenza progressiva). La diagnosi è prima di tutto angiografica
con dimostrazione (alla misurazione quantitativa) di
riduzione
sistolica del lume >50% (tipicamente >75%) e diastolica 35%.
Recentemente l’ecografia intracoronarica (ICUS) ha offerto
elementi ulteriori di conferma della presenza del ponte
miocardico (segno della “semiluna”) e dell’entità del
restringimento sisto-diastolico: misure della CSA (cross
sectional area ) hanno mostrato riduzioni del lume del 71-83% in
sistole e del 34-41% in diastole. La misura della velocità e
delle pressioni attraverso il ponte miocardico con le guide di
flusso e di pressione sono infine in grado di stabilire l’entità
della compromissione del flusso e la riduzione della riduzione
della riserva coronarica e quindi di guidare l’eventuale
successivo intervento percutaneo.
Trattamento:
nel paziente con ponte
miocardico sintomatico è sempre opportuno iniziare un adeguato
trattamento medico che deve prevedere l’astensione da sforzi
fisici intensi (limitare la tachicardia), l’inizio di un
beta-bloccante (il meccanismo di azione è da correlare
all’effetto cronotropo negativo con conseguente aumento del
tempo di riempimento diastolico e all’effetto inotropo negativo
con riduzione della compressione ab-estrinseco). Nei casi di
vera controindicazione all’impiego di un beta-bloccante si
devono impiegare calcio-antagonisti non diidropiridinici (verapamil
o diltiazem). E’ infine consigliabile associare anche una dose
quotidiana di aspirina al fine di ridurre il rischio di trombosi
piastrino-mediata nella sede di traumatismo che il ponte
miocardico sulla parete coronarica. Per quanto riguarda il
trattamento invasivo l’impianto di stent è sicuramente
l’intervento da eseguire in prima istanza rispetto alla terapia
chirurgica (miectomia o by-pass aortocoronarico). Nelle
casistiche pubblicate (peraltro tutte con piccoli numeri di
pazienti) lo stenting abolisce la compressione sistolica
all’angiografia, normalizza il flusso all’indagine diretta (flow
wire) e abolisce l’angina. La restenosi angiografica si attesta
intorno al 45% (5/11 pazienti, in uno studio eseguito in era pre
DES). Il dato è sovrapponibile alla restenosi con stent >25mm
(spesso è questa la lunghezza dei ponti miocardici sintomatici,
come confermano anche i dati ICUS) in vasi di calibro
relativamente piccolo. Il trattamento chirurgico mediante
miectomia è stato abbandonato in favore dell’impianto di stent.
L’intervento di by-pass aortocoronarico ha invece un ruolo
importante in caso di restenosi intrastent.
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