LE TERAPIA DELLE SINDROMI CORONARICHE ACUTE
CON ELEVAZIONE DEL TRATTO ST :
DALLE LINEE GUIDA ALLA PRATICA CLINICA

Ciro Indolfi, Annalisa Mongiardo, Carmen Spaccarotella,
Alessandro Ferraro, Daniele Torella
U.O. di Cardiologia Interventistica, Cattedra di Cardiologia & Centro Regionale di Riferimento per il trattamento endovascolare delle patologie cardiovascolari – Università “Magna Græcia”, Catanzaro.


Introduzione
L’infarto miocardico acuto con sopraslivellamento del tratto ST, secondo tutte le linee guida, dovrebbe essere trattato (quando è disponibile un laboratorio di emodinamica adeguatamente attrezzato e dotato di un team esperto) mediante angioplastica primaria. Questa, inizialmente introdotta come alternativa alla terapia fibrinolitica è ormai considerata come la terapia riperfusiva di scelta. Quasi due decadi dopo che i trials clinici hanno dimostrato che la terapia fibrinolitica per l’infarto miocardico acuto preserva la funzione ventricolare sinistra e riduce la mortalità, oggi esistono evidenze che la terapia meccanica di riperfusione è superiore a quella farmacologica in termini di riduzione della percentuale di mortalità, reinfarto, sanguinamento intracranico, riocclusione dell'arteria responsabile dell’infarto e di ischemia ricorrente. È ormai noto che la possibilità di ridurre la mortalità per infarto miocardico acuto (IMA) è strettamente legata al ripristino di un flusso efficace nel vaso responsabile (TIMI III). Infatti esiste una relazione pressoché lineare tra pervietà del vaso responsabile dell’IMA 90’ dopo l’inizio della terapia riperfusiva e mortalità intraospedaliera1. Tale obiettivo terapeutico è raggiungibile mediante angioplastica coronarica (PTCA) in oltre il 95% dei pazienti, cioè in una percentuale di gran lunga superiore a quella ottenibile con i trattamenti fibrinolitici.

LA METANALISI DEGLI STUDI CHE HANNO CONFRONTATO LA PTCA VERSUS LA TROMBOLISI NELL’IMA.
Recentemente è stata pubblicata su Lancet (Figura 1) la metanalisi di Keeley e coll.2 relativa a 23 trials in cui sono stati arruolati in totale 7739 pazienti con infarto miocardico acuto randomizzati ad angioplastica primaria o fibrinolisi.
Di questi, solo in 8 trials era stata usata la streptochinasi, mentre la maggior parte dei pazienti (76%) randomizzati alla fibrinolisi erano stati trattati con r-TPA. I risultati di questa metanalisi indicano che la PTCA primaria è più efficace della terapia fibrinolitica riducendo l’incidenza di eventi avversi cardiaci maggiori.
La percentuale di decessi è significativamente più bassa nel gruppo dei pazienti trattati con PTCA primaria rispetto a quelli sottoposti a terapia fibrinolitica (7% vs 9%; p=0.0002) e tale differenza tra i due gruppi si mantiene costante anche se si escludono dall’analisi i pazienti arruolati nello SHOCK Trial3 (uno studio in cui sono stati arruolati pazienti ad alto rischio, con shock cardiogeno). Infatti, la percentuale di decessi è rispettivamente 5% nel gruppo PTCA versus 7% in quello trattato con terapia medica.

Inoltre, anche quando la terapia riperfusiva è stata ritardata a causa della necessità di trasferire il paziente in un altro ospedale dotato di un laboratorio di emodinamica, i risultati, in termini di eventi avversi cardiaci maggiori, sono stati migliori (figura 2) rispetto a quelli ottenuti con la trombolisi4.
Ovviamente il beneficio non è costante per tutti i pazienti, ma progressivamente maggiore in misura proporzionale al rischio del paziente. Le maggiori riduzioni di mortalità, infatti, si ottengono nei pazienti ad alto rischio, con grave disfunzione ventricolare sinistra e/o età avanzata.
La maggiore efficacia della ricanalizzazione meccanica rispetto a quella farmacologica non si è però tradotta nella sua diffusione sistematica in tutti i pazienti con IMA. Anche negli Stati Uniti, la maggior parte degli ospedali non ha la possibilità di effettuare l’angioplastica primaria e in molti di questi quasi il 50% dei pazienti con infarto miocardico acuto ed ST sopraslivellato vengono sottoposti a terapia fibrinolitica.

L’uso più parsimonioso dell’angioplastica primaria (circa l’11% di tutti gli infarti acuti) sembrerebbe negare la superiorità di questa metodica rispetto alla fibrinolisi. In realtà, i motivi della sua limitata diffusione a distanza di oltre 15 anni dalla prima angioplastica primaria sono molteplici: di ordine economico, culturale, ma soprattutto organizzativi. Il motivo principale è riferibile al fatto che la superiore efficacia della ricanalizzazione meccanica è evidente soltanto quando vengono soddisfatti degli standards operativi difficili da raggiungere nella corrente organizzazione sanitaria (centro ad elevato volume e operatore esperto). Quando una strategia di angioplastica primaria è stata provata nel “mondo reale”, e cioè al di sotto di standards operativi minimi, i risultati sono stati di gran lunga inferiori a quelli dimostrati da altri trials di confronto tra fibrinolisi e angioplastica primaria.
Ovviamente l’obiettivo primario della terapia riperfusiva nell’infarto miocardico acuto è la ricanalizzazione precoce e persistente dell’arteria infartuale:
-precoce perché l’effetto clinico della terapia riperfusiva va progressivamente riducendosi con il passare delle ore, sia per la fibrinolisi che, in misura minore, anche per l’angioplastica primaria; -persistente perché la riocclusione dell’arteria infartuale, che si verifica nel 10% dei casi circa entro 1 settimana, è gravata da una prognosi sfavorevole.Tale obiettivo terapeutico è oggi raggiungibile in un’elevata percentuale dei casi mediante l’utilizzo alternativo o combinato di strategie farmacologiche e meccaniche. Non vi è dubbio che, laddove eseguibile in tempi brevi, e possibilmente da parte di operatori esperti, l’angioplastica primaria rappresenti la strategia riperfusiva ottimale, soprattutto se associata allo stenting e all’impiego di antagonisti della glicoproteina (GP) IIb/IIIa piastrinica5: la PCI è in grado di ricanalizzare l’arteria responsabile dell’IMA in oltre il 90% dei casi e mantiene un’elevatissima percentuale di pervietà a distanza.

LE LINEE GUIDA
Le linee guida ACC/AHA consigliano di dividere il periodo del post-infarto in tre momenti successivi e distinti, non necessariamente simili per tutti i pazienti. La suddivisione è, infatti, arbitraria per la difficoltà di individuare un comune punto di partenza in tutti i pazienti. Sono stati inclusi nel gruppo dei pazienti con ST sopraslivellato anche i pazienti con dolore toracico tipico e nuova, o presunta tale, insorgenza di blocco di branca sinistra all’ECG che maschera la diagnosi di IMA.
Nel primo periodo, quando il paziente è ancora in terapia intensiva, se presenta sopraslivellamento del tratto ST o blocco di branca di nuova insorgenza, la coronarografia è indicata come preludio alla PTCA primaria in alternativa alla trombolisi. Il secondo periodo è relativo al trasferimento del paziente nel reparto di cardiologia. Durante questa fase la necessità del ricorso alla coronarografia è determinata dallo sviluppo di alcune complicazioni dell’infarto, come angina post-infartuale, scompenso cardiaco successivi a difetti interventricolari (DIV), disfunzione di muscolo papillare o persistenza di aritmie maligne entro le prime 24 ore dall’infarto. L’ultimo periodo dall’infarto, durante il quale la coronarografia potrebbe essere utile è al momento della dimissione per la stratificazione del rischio o in presenza di stress test positivo. La ricanalizzazione dell’arteria responsabile dell’infarto ed il ripristino di un flusso adeguato in una larga maggioranza di pazienti determina un miglior recupero funzionale del miocardio.
In uno studio prospettico osservazionale del National Registry of Myocardial Infarction l’analisi dei risultati di una coorte di 27080 pazienti consecutivi con IMA che sono stati trattati con PTCA primaria in 661 ospedali di I e di III livello negli Stati Uniti, ha dimostrato una forte correlazione tra l’incremento della mortalità e l’allungamento del tempo intercorrente tra l’ingresso del paziente in ospedale e l’inizio della procedura interventistica (“door-to-balloon time”) superiore a 2 ore. Dunque, il “door-to-balloon time” può essere considerato un valido indicatore della qualità del trattamento, e dovrebbe essere ridotto quanto più è possibile al fine di ottenere migliori risultati clinici. Una strategia di trasferimento
per tutti i pazienti con IMA, in centri dotati di cardiologia interventistica è stata valutata recentemente negli studi DANAMI 2 e PRAGUE 2.
Le linee guida dell’ACC/AHA e della Società Europea di Cardiologia forniscono raccomandazioni circa l’uso appropriato di un programma di PTCA primaria, e scoraggiano fermamente i piani che prevedono uno scarso numero di procedure. L’impatto di queste specifiche linee guida nella pratica clinica è più basso di quanto desiderato. Solo gli ospedali che posseggono un laboratorio di emodinamica adeguato possono considerare la PTCA primaria come terapia di routine nell’IMA12.

Tabella 2.17. Linee Guida AHA/ACC (2001) per la PCI primaria



Raccomandazioni per PCI primaria in pazienti con IMA transmurale in alternativa alla trombolisi
Classe I Classe Iia Classe III

Come alternativa alla terapia trombolitica in pazienti con IMA e sopraslivellamento del tratto ST, o nuovo o presunto tale blocco di branca sinistra, che possono essere sottoposti a PCI dell’arteria responsabile dell’infarto a =12 h (generalmente entro 90’) dall’inizio della sintomatologia ischemica o a >12 h se persistono i sintomi), se può essere eseguito in modo tempestivo, da personale specializzato (>75 PTCA/anno/operatore) in un appropriato laboratorio (>200 procedure/ anno e con reperibilità cardiochirurgica). (ev A)

Come strategia riperfusiva in candidati che hanno una controindicazione a terapia trombolitica (ev. C)
PCI elettiva di arteria non responsabile dell’IMA (ev. C)
In pazienti che a 36 h da un IMA presentano persistenza di sopraslivellamento del tratto ST/onda Q o nuovo BBsn, che sviluppano shock cardiogeno, hanno <75 aa e la rivascolarizzazione può essere eseguita da personale specializzato in un appropriato laboratorio. (ev A)
In pazienti con IMA che:
• Hanno ricevuto terapia fibrinolitica entro 12 h e non hanno sintomi di ischemia miocardica.
• Sono eleggibili per la terapia trombolitica e la PCI primaria dovrebbe essere eseguita da personale non esperto.
• Intervento oltre 12 h dall’inizio dei sintomi e senza evidenza di ischemia miocardica. (ev.C)
Da ACC/AHA Percutaneous Coronary Intervention Guidelines JACC 2001

L’efficacia del trattamento con PTCA primaria potrebbe, altrimenti essere inficiato dall’aumento del numero di complicanze. I dati in Italia sono comunque incoraggianti: il numero di PTCA primarie passa da 6871 nel 2001 a 9010 nel 2002 (dati GISE Società Italiana di Cardiologia Invasiva, www.gise.it).
Il CAPTIM study che correla la fibrinolisi precoce (in ambulanza) con l’angioplastica primaria nell’IMA non ha mostrato, invece, differenze significative tra i due gruppi, anche se un elevato numero di pazienti sono stati poi avviati ad una strategia di rivascolarizzazione percutanea.
I pazienti con controindicazioni alla terapia fibrinolitica o aggravati da un’elevata morbilità e mortalità dovrebbero essere candidati alla PTCA primaria.
Alla luce dei dati di una sottoanalisi del CAPTIM, sono riportate di seguito le conclusioni sul trattamento del paziente con infarto miocardico acuto:
- Per i pazienti che giungono all’osservazione del medico molto precocemente dopo l’inizio dei sintomi, la fibrinolisi in ambulanza, se possibile, è il trattamento più appropriato e può essere seguita dall’angioplastica, se necessaria.
- I pazienti che non possono essere sottoposti a fibrinolisi nelle ore “d’oro”, cioè da due a tre dopo l’inizio dei sintomi, ma che non possono essere sottoposti ad angioplastica, devono essere trattati mediante PCI anche se è necessario il trasporto in un ospedale con laboratorio di emodinamica.
- I pazienti che si presentano dopo due o tre ore dall’inizio dei sintomi, ma che non possono essere sottoposti a trattamento percutaneo entro le successive due ore, devono essere sottoposti a fibrinolisi (ad eccezione dei pazienti che presentano controindicazioni), quindi possono essere stratificati per un’immediata o differita PCI aggiuntiva.
- Per i pazienti che si presentano all’osservazione dopo sei ore dall’inizio dei sintomi, dovrebbe essere effettuata l’angiografia coronarica seguita dall’angioplastica o dal by-pass.
Non è chiaro se in pazienti asintomatici, la strategia di una PTCA di routine dell’arteria colpevole dell’infarto dopo trombolisi eseguita con successo, mostra benefici per ciò che riguarda la sopravvivenza, il recupero di più tessuto miocardico o la prevenzione del reinfarto o della morte. In alcuni studi questo approccio è associato ad un aumento dell’incidenza di eventi avversi, come sanguinamenti, ischemia ricorrente, chirurgia coronarica d’urgenza e morte. Tali studi che hanno valutato gli effetti dell’angioplastica sistematica dopo trombolisi (e che hanno messo la PCI primaria dopo trombolisi in classe III) sono però stati effettuati in epoca pre-stent e pre-inibitori della GP IIb/IIIa. Lo studio GRACIA, ha invece dimostrato il possibile beneficio di una angioplastica effettuata di routine dopo la trombolisi.
Studi osservazionali hanno valutato l’utilizzo di PTCA in pazienti con shock cardiogeno Per i pazienti che non hanno una causa meccanica di shock (cause meccaniche: insufficienza mitralica acuta o rottura del SIV post-infartuale) la mortalità è minore in quelli trattati con PCI rispetto alla terapia medica. Una strategia di rivascolarizzazione meccanica precoce è generalmente raccomandata nei pazienti di età < 75 anni che presentano IMA complicato da shock cardiogeno dovuto ad un prevalente scompenso del ventricolo sinistro.
Lo studio SHOCK, ha messo a confronto una strategia di rivascolarizzazione precoce (PTCA o intervento cardiochirurgico) con un’iniziale strategia di tipo conservativo inclusa la fibrinolisi e l’uso del contropulsatore aortico; questo trial ha dimostrato il beneficio di una precoce strategia invasiva solo per i soggetti maschi con età < 75 anni. La riduzione della mortalità a 30 giorni è risultata <20% (46.7 vs 56.0%; il tasso di mortalità ad 1 mese era del 45.3% per i pazienti che venivano sottoposti a PTCA e del 42.1% per quelli che venivano sottoposti ad intervento cardiochirurgico).


Linee Guida AHA/ACC (2001) per la PCI dopo trombolisi

Raccomandazioni per PCI dopo trombolisi
Classe I Classe IIa Classe IIb Classe III
Evidenza oggettiva di reinfarto o ischemia (PCI rescue) (ev. B) Shock cardiogeno od instabilità emodinamica (ev. B) Angina ricorrente senza evidenza oggettiva di ischemia/infarto (ev. C)

Angioplastica della culprit lesion entro ore o giorni (48 ore) successive a terapia trombolitica in pz asintomatici senza evidenza di ischemia clinica e/o inducibile. ev B Angioplastica di routine nelle 48 ore seguenti una trombolisi inefficace (ev. B)

Angioplastica di routine della culprit lesion immediatamente dopo la terapia trombolitica (ev A)
Da ACC/AHA Percutaneous Coronary Intervention Guidelines JACC 2001

Una correlazione positiva tra strategia di rivascolarizzazione precoce e mortalità ad 1 mese è stata riscontrata nei pazienti maschi di età < 75 anni, tempo intercorrente tra inizio dell’IMA e randomizzazione < 6 ore e storia di pregresso IM.
Una correlazione negativa tra strategia di riperfusione precoce e mortalità ad 1 mese, invece, è riscontrata nelle donne, ed in pazienti di età > 75 anni. A 6 mesi, la mortalità totale per tutte le cause era più bassa nel gruppo sottoposto a rivascolarizzazione precoce che nel gruppo che aveva ricevuto terapia medica per la stabilizzazione (50.3 vs 63.1%).
Il tasso di mortalità comunque molto elevato nel gruppo sottoposto a rivascolarizzazione precoce, può avere diverse spiegazioni: il tasso di successo della PTCA è rimasto molto basso fino agli ultimi 2 anni dell’arruolamento dei pazienti, infatti solo il 58% dei pazienti raggiungeva un flusso TIMI 3 dopo la procedura.
Questi risultati alquanto deludenti possono essere spiegati, almeno in parte, dal limitato uso degli stents nei primi 4 anni di arruolamento. Infatti, una PTCA di successo determinava una riduzione della mortalità (38%) se raffrontata con il tasso di mortalità dei pazienti con procedura insoddisfacente (79%).
In secondo luogo, il ritardo tra l’esordio dello shock cardiogeno ed il trattamento è risultato eccessivamente lungo: il tempo medio tra l’inizio dell’IMA e la diagnosi di shock era di 5 ore, e il tempo medio tra l’inizio dell’IMA e la randomizzazione era di ben 11 ore; il ritardo tra la randomizzazione e il trattamento risultava di 0.9 ore per la PTCA e di 2.7 ore per l’intervento cardiochirurgico.
Perciò, i pazienti che venivano sottoposti a PTCA ricevevano un trattamento dopo un tempo medio di 12 ore dall’inizio dell’IMA, e di 7 ore dopo la diagnosi di shock.
Questo ritardo del trattamento può in parte spiegare i risultati relativamente scarsi nei pazienti arruolati nello studio SHOCK.
Questi aspetti sono compatibili con i risultati di studi precedenti21 i quali hanno dimostrato che il beneficio della riperfusione nei pazienti in stato di shock è strettamente dipendente dal tempo.
Dunque, si potrebbe dedurre che un più elevato tasso di successo della PTCA con l’impiego di stent, potrebbe essere associato alla riduzione del tempo intercorrente dalla diagnosi di shock al trattamento.
È importante sottolineare che nello studio GUSTO I ed in altri studi riguardanti la fibrinolisi, solo lo 0.8% dei pazienti presentava uno stato di shock all’ammissione, sebbene la maggioranza dei pazienti che hanno sviluppato shock venivano inizialmente classificati in classe Killip I.
Questo dato suggerisce l’opportunità di considerare un intervento di rivascolarizzazione meccanica primaria per tutti i pazienti ad alto rischio di shock, così come per i pazienti con IMA esteso, infarto ricorrente, pregresso intervento di bypass aorto-coronarico, età avanzata.
Secondo le linee guida italiane vi è un alto livello di evidenza a favore del beneficio della rivascolarizzazione precoce nello shock cardiogeno ed è raccomandata una precoce strategia di tipo invasivo in tutti i pazienti con IMA complicato dal sopravvento di uno shock cardiogeno, senza alcuna restrizione basata sull’età o sul sesso, ad eccezione di quei casi in cui l’intervallo di tempo intercorrente tra l’inizio dello shock ed il trattamento sia così lungo da ridurre l’efficacia della terapia riperfusiva (shock cardiogeno irreversibile dovuto a disfunzione del microcircolo).
Le più recenti linee guida sono quelle della Società Europea di Cardiologia sull’IMA (2003) e sugli interventi coronarici percutanei (2005)18.
L’angioplastica primaria definita come angioplastica o stenting senza precedente o concomitante trattamento fibrinolitico è, secondo le linee guida dell’ESC 2003, l’opzione terapeutica da preferire entro 90’ dal primo contatto medico e quando è presente personale esperto di cardiologia interventistica.
La prima PCI primaria fu effettuata nel 1979, solo due anni dopo l’avvento dell’angioplastica. Da allora molti studi clinici randomizzati hanno documentato la superiorità di questa metodica rispetto alla trombolisi. Sembra, inoltre, che il maggiore beneficio da questa terapia lo traggano le donne e i pazienti anziani.
Una sessione cospicua delle linee guida ESC 2005 sull’angioplastica è stata dedicata all’IMA con sopraslivellamento del tratto ST.


Linee Guida ESC (2003): raccomandazioni alla terapia riperfusiva dopo IMA

Terapia riperfusiva
Raccomandazioni
Classe I
Classe IIa
Classe IIb
Classe III
Livello di evidenza
La terapia riperfusiva è indicata in tutti i pazienti con storia di dolore toracico <12 h associato con sopraslivellamento del tratto ST od insorgenza di nuovo blocco di branca sinistra all’ECG
X
A
Angioplastica primaria:
Trattamento preferito se effettuato da team esperto entro 90’ dal primo contatto medico
X
A
Pz in shock o con contro-indicazioni alla terapia fibrinolitica
X
C
Utilizzo degli Inibitori delle GP IIb/IIIa in angioplastica primaria.
Senza stent
X
A
Utilizzo degli Inibitori delle GP IIb/IIIa in angioplastica primaria.
Con stent
X
A
Angioplastica rescue:
Dopo trombolisi inefficace in pazienti con infarto esteso
X
B
Trattamento fibrinolitico:
In assenza di controindicazioni e se la PCI primaria non può essere effettuata entro 90’ o non è presente personale esperto
X
A
La scelta dell’agente fibrinolitico dipende dalle condizioni generali del rapporto rischio-beneficio dalla disponibilità e dai costi. In pazienti che arrivano tardi all’osservazione (>4h dall’inizio dei sintomi) sono da preferire tenecteplase od alteplase.
X
A
Inizio della terapia fibrinolitica nella fase di pre-ospedalizzazione.
X
B
Risomministrazione di un agente litico non immunogenico se c’è evidenza di riocclusione e non è possibile la riperfusione meccanica.
X
B
Terapia con aspirina (150-325 mg) in assenza di controindicazioni.
X
A
Terapia con eparina (sec peso corporeo) in pazienti che hanno ricevuto alteplase e reteplase. Somministrare precocemente e riaggiustare frequentemente il dosaggio sec aPTT.
X
B
Terapia con eparina opzionale se è stata utilizzata Streptochinasi.
X
B

 

Le linee guida specificano che la PCI nell’IMA con ST sopra richiede un team esperto di cardiologi interventisti. Ciò significa che solo gli ospedali con un reparto di cardiologia interventistica organizzato per le urgenze dovrebbe effettuare l’angioplastica al posto della trombolisi nei pazienti con STEMI.
Secondo le linee guida ESC 2005 su PCI il percorso diagnostico-terapeutico più appropriato del paziente con IMA e sopraslivellamento del tratto ST può essere riassunto come segue:


In pazienti con malattia aterosclerotica coronarica multivasale, la PCI primaria dovrebbe essere effettuata, in acuto, solo sull’arteria responsabile dell’infarto (culprit vessel), procrastinando la decisione circa la rivascolarizzazione delle altre lesioni in base all’evidenza di ischemia residua al follow up tardivo.

Linee Guida ESC 2005 sulla PCI
Procedura Indicazioni Raccommandazioni Studi Randomizzati per i Livelli di Evidenza A o B
PCI primaria Pz che si presenta entro 12 ore dall’inizio dei sintomi e preferibilmente entro 90 min dopo il primo contatto medico qualificato; PCI dovrebbe essere effettuata da un team esparto. I A PAMI
GUSTO-IIb
C-PORT
PRAGUE-1 and –2
DANAMI-2
“primary stenting” Impianto di stent di routine durante PCI I A Zwolle
Stent-PAMI
CADILLAC
PCI primaria Quando vi sono controindicazioni alla trombolisi I C --
PCI primaria Da preferire alla trombolisi quando i pz si presentano dopo 3 ore, ma entro le 12 ore, dall’inizio dei sintomi I C --
PCI rescue Se la trombolisi fallisce entro 45-60 minuti dopo l’inizio della somministrazione I B REACT
PCI in emergenza (CAD multi-vasale) Shock cardiogeno, in associazione con IABP
anche > 12 e < 36 ore I C --
Coroanrografia e eventuale PCI (se effettuabile), di routine dopo la trombolisi Entro 24 ore dalla trombolisi, indipendentemente dalal presenza di angina e/o ischemia I A SIAM III
GRACIA-1
CAPITAL-AMI
PCI guidata dall’ischemia dopo trombolisi effettuata con successo Presenza di ancgina e/o ischemia in predimissione dopo (per la prima volta) STEMI trattata con trombolisi I B DANAMI-1


IL TRASFERIMENTO DEI PAZIENTI CON IMA (HUB & SPOKE).
In quest’ottica è sorto il nuovo problema di stabilire se l'angioplastica primaria effettuata dopo trasferimento del paziente dal centro di riferimento (Spoke) a un ospedale dotato di cath lab in grado di effettuare angioplastiche primarie 24 ore su 24 (Hub), dia risultati comunque superiori alla terapia fibrinolitica somministrata all'ospedale di riferimento. Considerando il ritardo insito nel trasferimento ed i rischi connessi al trasporto durante l'infarto miocardico acuto, la risposta non è intuitiva.
Alla luce dei risultati dei trials clinici più recenti (DANAMI 2 e PRAGUE 2)6,7 e di una recente metanalisi di Zijlstra4 che hanno dimostrato la superiorità dell’angioplastica primaria anche quando il paziente deve essere trasferito presso un laboratorio di emodinamica distante dal centro di riferimento, la questione da dibattere non è più se valga la pena di organizzare un sistema di trasferimento dei pazienti con infarto acuto, ma come organizzarlo e con quali supporti farmacologici in funzione del rischio del paziente e del “door-to-balloon time”.
A tal fine, è importante sottolineare che il 96% dei pazienti arruolati in questi trials sono stati trasferiti dagli ospedali di riferimento ai centri dove veniva effettuata l’angioplastica entro due ore dalla randomizzazione. L’analisi di questi dati rivela che, nonostante il ritardo connesso al trasferimento (in media 43 minuti), la PTCA primaria si associata a una significativa riduzione della percentuale di morte, re-IMA non fatale e stroke. Inoltre, il trasferimento è risultato sicuro e fattibile, in quanto gli eventi avversi durante il trasporto sono stati infrequenti (0.5% di mortalità e 0.7-1.4% di aritmie ventricolari).
Un’altra metanalisi è stata pubblicata nell’Ottobre 2003 da Montelescot et al.; sono stati inclusi tutti gli studi in cui è stata confontata la fibrinolisi in situ con il trasferimento presso un centro dove veniva effettuata l’angioplastica primaria. L’endopoint primario è stato un composito di morte, re-IMA e stroke a 30 giorni. I trials inclusi nella metanalisi sono il Maastricht, il PRAGUE 1 e 2, l’Air-PAMI, il CAPTIM e il DANAMI 2. I risultati hanno dimostrato che l’angioplastica primaria determina una significativa riduzione del rischio relativo riguardante l’end point combinato; anche quando analizzati separatamente, il rischio di re-IMA e stroke era significativamente ridotto nel gruppo che aveva effettuato angioplastica primaria. Anche la morte era stata ridotta dall’angioplastica primaria, pur se in maniera non significativa. Tale differenza, diventa invece, statisticamente significativa, se dalla metanalisi si esclude lo studio CAPTIM, uno studio che differisce dagli altri in quanto la randomizzazione e quindi la somministrazione della terapia fibrinolitica veniva effettuata precocemente, nella fase pre-ospedaliera; inoltre, molti pazienti assegnati al braccio fibrinolisi, sono stati poi inviati al cath lab per effettuare angioplastica rescue.
Un recente articolo8 ha dimostrato che, nei pazienti con IMA e ST sopraslivellato, il parametro che più si correla alla mortalità è il “symptom-onset-to-balloon time” piuttosto che il “door-to-balloon time”, soprattutto nei pazienti non a basso rischio e in quelli con flusso preprocedurale TIMI 0. Inoltre, un “symptom-onset-to-balloon time” superiore alle 4 ore è stato identificato come predittore indipendente di mortalità ad un anno.
L’angioplastica primaria presenta problemi logistici non indifferenti e di non immediata soluzione in estese aree del nostro territorio nazionale. Al momento attuale, si configurano almeno tre possibili situazioni logistiche:
-centri in cui è disponibile, in sede o nelle immediate vicinanze,un laboratorio di cardiologia interventistica attivo 24 ore su 24 (“door-to-balloon time” entro 90 min); in questi centri sembra proponibile, e nella maggior parte dei casi è già attiva, una strategia di angioplastica primaria sistematica o, al più, limitata ai casi a rischio intermedio-elevato;
-centri in cui, per distanza fisica o problemi organizzativi, il “door-to-balloon time”sia 90-180 min, ma comunque tale da non rendere proibitivo il trasferimento dei pazienti, per lo meno di quelli in cui sia fortemente consigliabile una rivascolarizzazione d’emergenza;
-centri, infine, per cui il “door-to-balloon time” sia proibitivo per una strategia di angioplastica primaria anche selettiva.
La recente espansione delle possibilità farmacologiche di riperfusione miocardica precoce nell’infarto miocardico, e la maggiore attenzione all’integrazione di strategie farmacologiche e meccaniche, ancorché in via di evoluzione, sembra promettere un miglioramento della prognosi dell’infarto miocardico acuto, soprattutto nei pazienti a rischio più elevato.
La ricanalizzazione farmacologica dell’arteria responsabile dell’IMA richiede la combinazione di un attivatore del plasminogeno, un farmaco antipiastrinico e uno antitrombinico per due motivi: innanzitutto perché il trombo fresco è costituito di fibrina (che si forma mediante il meccanismo trombinico e si dissolve mediante la lisi plasminica) e piastrine; in secondo luogo, perché la lisi del trombo mediante terapia fibrinolitica induce uno stato protrombotico che deve essere contrastato mediante antipiastrinici e anticoagulanti, pena la riocclusione.
Strategie possibili, al fine di trarre il maggiore vantaggio dalle opzioni attualmente disponibili sono:
- La selezione dei pazienti in cui il beneficio della riperfusione meccanica sia maggiore o irrinunciabile, o il rischio emorragico non sostenibile a fronte di una strategia alternativa;
- Rendere farmacologicamente proficuo il tempo di trasferimento mediante farmaci specifici, specialmente quando si prevedano tempi lunghi per la riapertura meccanica dell’arteria responsabile dell’IMA.
Esistono pazienti, quali quelli con evoluzione verso lo shock o con classe Killip elevata, per i quali da tempo la rivascolarizzazione meccanica è considerata obbligatoria. Il beneficio dell’angioplastica coronarica appare inoltre maggiore nei pazienti con infarto miocardico esteso, precedente infarto miocardico, ipotensione-tachicardia.
Questi pazienti vanno individuati già al primo contatto medico e inviati presso il centro più idoneo.
Secondo le linee guida dell’ESC 20035, l’angioplastica primaria è l’opzione terapeutica da preferire entro 90’ dal primo contatto medico e quando è presente personale esperto in cardiologia interventistica Solo nell’impossibilità di un rapido trasferimento per angioplastica primaria, andranno privilegiate le strategie trombolitiche9,10.
Più discusse, e materia di studi randomizzati attualmente in corso, sono le scelte nei casi di elevata distanza temporo-spaziale dalla sala di emodinamica. Due opzioni sono attualmente in corso di valutazione in assenza di dati adeguati sia sull’efficacia che sulle modalità: l’angioplastica facilitata e l’angioplastica di salvataggio o “rescue ”.

L’ANGIOPLASTICA FACILITATA.
Per angioplastica facilitata si intende una procedura effettuata previa somministrazione di inibitori della GP IIb/IIIa e basse dosi di fibrinolitico in paziente con infarto miocardico acuto. La terapia farmacologica usualmente viene somministrata, durante il trasporto, prima che il paziente giunga in emodinamica. Il razionale di questa terapia combinata (figura 4) è quello di tentare di ricanalizzare farmacologicamente l’arteria responsabile dell’IMA prima della ricanalizzazione meccanica, riducendo così il tempo di ischemia e salvando miocardio vitale11. La somministrazione di farmaci antitrombotici e/o litici avrebbe, inoltre, il vantaggio di facilitare la ricanalizzazione meccanica del vaso, di ridurre la massa trombotica e di rendere meno reattiva la superficie piastrinica sia a livello del trombo colpevole (minore probabilità di riocclusione precoce) che a livello periferico (minore rischio di “no-reflow”). Al momento attuale, non vi sono dati conclusivi né sulla reale efficacia dell’angioplastica facilitata, né su quale sia eventualmente la migliore strategia farmacologica, anche se alcuni studi sono attualmente in corso.
Tre opzioni sono state valutate in studi di piccole dimensioni: t-PA in singolo bolo, abciximab da solo e abciximab più solo il bolo (mezza dose) di t-PA.
Nello studio SPEED12 sono stati arruolati 484 pazienti divisi in gruppi ai quali veniva somministrato rispettivamente abciximab, con e senza bassa dose di reteplase, solo reteplase e terapia sec protocollo standard di reteplase. I risultati di questo trial dimostrano che il trattamento con reteplase+abciximab è correlato ad una precoce e completa riperfusione. Dati simili sono stati riportati da altri trial come il GUSTO I13 ed il GUSTO IV14.
I diversi trials hanno ovviamente dimostrato una maggiore percentuale di normale flusso nell’arteria responsabile (flusso TIMI III) pre-angioplastica e sono promettenti soprattutto in termini di recupero della funzione contrattile ventricolare sinistra a distanza. È, inoltre, stato dimostrato che la presenza di un normale flusso anterogrado (TIMI III) nell’arteria responsabile dell’IMA prima dell’angioplastica è un fattore indipendente che determina un aumento della sopravvivenza (Figura 5). Nello studio ADMIRAL15 l’utilizzo di abciximab prima della procedura di angioplastica primaria ha dimostrato una maggiore pervietà del vaso responsabile dell’ IMA con un flusso TIMI III pre-angioplastica del 16.8% nel gruppo trattato con reopro rispetto al 5.4% del gruppo controllo (p<0.01). L’abciximab ha inoltre determinato un miglioramento degli end points combinati a sei mesi. Il TIGER Trial16 è uno studio prospettico pilota, randomizzato il cui scopo è stato quello di valutare l’efficacia, la sicurezza e la fattibilità della somministrazione precoce di tirofiban prima dell’angioplastica primaria.


Sono stati arruolati nello studio 100 pazienti in cui i sintomi dell’infarto erano comparsi da meno di 12 ore, di questi, 50 sono stati assegnati ad una precoce strategia riperfusiva (somministrazione di tirofiban (10 mg/kg in 3’ + 0.15 mg/kg/min x 24 h) ed eparina sodica (70 UI/kg + 5 UI/kg/h) in pronto soccorso, e successivo trasferimento presso il laboratorio di emodinamica) e 50 sono stati assegnati a ricevere in pronto soccorso la sola eparina sodica alla dose di 100 UI/kg + 10 UI/kg/h e successivamente trasferiti per effettuare l’angioplastica primaria durante la quale veniva somministrato il tirofiban allo stesso dosaggio.
I dati dello studio dimostrano che il flusso TIMI III pre-angioplastica nel gruppo assegnato alla terapia farmacologica precoce era significativamente maggiore rispetto a quello del gruppo di controllo (32% vs 10%, p<0.007). Nessuna differenza significativa tra i due gruppi è stata, invece, dimostrata per quanto concerne l’incidenza di stroke o altri eventi emorragici sia maggiori che minori.

SI PUÒ IPOTIZZARE UNA STRATEGIA DI TRANSFERIMENTO (NELLE SEI ORE) IN TUTTI I PAZIENTI GIÀ TROMBOLISATI PER EFFETTUARE UN’ANGIOPLASTICA ?
Nell’Agosto 2003 è stato pubblicato su JACC il SIAM III trial (Southwest German Study in Acute MI III), uno studio tedesco in cui sono stati arruolati 163 pazienti con IMA inizialmente trattati con bolo di reteplase, acido acetilsalicilico ed eparina nell’ospedale di riferimento e successivamente randomizzati in due gruppi:
1) immediato trasferimento in un centro dotato di cath-lab dove, entro 6 ore dalla somministrazione di reteplase, veniva effettuata l’angioplastica con impianto di stent dell’arteria responsabile dell’infarto
2) stabilizzazione clinica dopo terapia fibrinolitica e invio al laboratorio di emodinamica, circa due settimane dopo l’evento acuto, per effettuare angioplastica elettiva dell’arteria responsabile dell’IMA.
I risultati dello studio hanno dimostrato una significativa riduzione dell’end point primario (morte, re-IMA, eventi ischemici e rivascolarizzazione del vaso responsabile dell’IMA) a 6 mesi, nel gruppo in cui è stata effettuata l’angioplastica dopo la trombolisi (con trasferimento entro le sei ore) rispetto al gruppo in cui la rivascolarizzazione meccanica è stata procrastinata. La percentuale di complicanze emorragiche è risultata comparabile nei due gruppi.

L’ANGIOPLASTICA RESCUE.
Per angioplastica di salvataggio o “rescue” si intende una procedura effettuata dopo trombolisi inefficace in pazienti con ischemia miocardia ricorrente o continua (in genere dopo 90’). Questo approccio, effettuato in una fase intermedia, determina la ricanalizzazione dell’arteria responsabile dell’infarto con conseguente miglioramento della cinetica segmentaria e riduzione degli eventi avversi rispetto a una procedura eseguita in elezione in tempi più tardivi. Le linee guida ACC/AHA (2001)21 consigliano di effettuare la PTCA dopo trombolisi solo in caso di pazienti con infarto ed ischemia ricorrente (Classe I), o in quelli con shock cardiogeno e/o instabilità emodinamica (Classe IIa). Le linee guida italiane (FIC, ANMCO, SIC 2002)17 sottolineano che un accertamento precoce non invasivo dell’efficacia della terapia trombolitica permette la rapida diagnosi di trombolisi inefficace ed il conseguente trasferimento del paziente per l’intervento di rivascolarizzazione meccanica. L’elevato pericolo di un intervento di tipo meccanico rilevato in vecchi studi con PTCA convenzionali necessita di una rivalutazione dal momento che, con l’uso degli stents e degli inibitori delle GP IIb/IIIa, le percentuali di successo e le complicanze periprocedurali sono comparabili a quelle di una angioplastica primaria effettuata in assenza di terapia fibrinolitica. Gli studi eseguiti all’inizio degli anni ’90 hanno dato risultati non conclusivi per le loro piccole dimensioni, per la mancanza di un’adeguata terapia antitrombotica di supporto e per la fase pionieristica in cui si trovava l’angioplastica coronarica, con il risultato di uno scarso utilizzo di questa opzione.

Linee Guida AHA/ACC (2001) per la PCI durante ricovero in reparto dopo terapia trombolitica acuta per l’IMA

Raccomandazioni per PCI durante ricovero in reparto dopo terapia trombolica acuta per l’IMA inclusa la PCI primaria
Classe I Classe IIa Classe IIb Classe III
Ischemica miocardica spontanea od indotta durante il ricovero per IMA (ev C)

Persistente instabilità emodinamica (ev C) Pazienti con FE<40%, scompenso cardiaco congestizio od importanti aritmie ventricolari (ev C)

Coronarografia ed PCI di un’arteria occlusa in pazienti altrimenti stabili per ricanalizzare il vaso (teoria del vaso pervio) (ev. C)

Tutti i pazienti dopo un IMA non Q (ev.C)
Insufficienza cardiaca in acuto con successivo ripristino della funzione ventricolare sinistra (FE>40%) (ev. C) Angioplastica della culprit lesion nelle 48-72 ore dopo terapia trombolitica senza evidenza di ischemia spontanea od inducibile (ev. C)

In realtà, l’angioplastica “rescue” ha un grande potenziale terapeutico, soprattutto nei centri che non dispongono di un laboratorio di emodinamica, in particolare nei pazienti più a rischio (infarti estesi, reinfarti e in generale nei casi di instabilità emodinamica) e alla luce dell’attuale strategia farmacologica di combinazione di anti-GP IIb/IIIa e fibrinolitico in grado di riaprire l’arteria responsabile in oltre il 70% dei casi, preparando altresì un terreno favorevole per una successiva angioplastica. Il potenziale pratico è quello di iniziare la terapia farmacologica nel centro periferico e di trasferire urgentemente il paziente solo nel caso di mancata riperfusione o di situazione di instabilità emodinamica.
Questi problemi irrisolti sono alla base di alcuni trials attualmente in corso sulle strategie riperfusive combinate farmacologiche e meccaniche.
Tra gli studi in corso si annovera il CARESS, uno studio condotto dalla Società Italiana di Cardiologia Invasiva-Gise, il cui scopo è quello di paragonare l’efficacia di due diverse strategie riperfusive in pazienti ad alto rischio con infarto miocardico acuto e sopraslivellamento del tratto ST:
- Terapia con Abciximab e r-TPA a mezza dose, con la possibilità di effettuare l’angioplastica rescue in caso di fallimento della terapia farmacologica;
- Invio elettivo al laboratorio di emodinamica per effettuare l’angioplastica facilitata dopo una precoce somministrazione di Abciximab e mezza dose di r-TPA.
Secondo quanto affermato nel documento congiunto FIC/ANMCO/SIC17 sul trattamento dei pazienti con IMA le possibili strategie terapeutiche sono:
- solo trombolisi per tutti i pazienti con IMA (modello ormai insufficiente);
- PTCA primaria per i pazienti con shock cardiogeno e per quelli non eleggibili per la trombolisi (modello “minimo” da garantire ovunque);
- PTCA rescue per pazienti con trombolisi inefficace (modello “minimo” da garantire ovunque);
- PTCA primaria per pazienti con IMA ad alto rischio (modello standard da implementare progressivamente in tutta Italia);
- PTCA primaria per tutti i pazienti con IMA (modello attuabile in poche realtà).
Possibili integrazioni possono essere rappresentate dalla trombolisi preospedaliera e dall’angioplastica facilitata mediante pre-trattamento con inibitori della GP IIb/IIIa in ambulanza o nel centro periferico.
Alla luce di quanto affermato la scelta del percorso terapeutico per il paziente con IMA deve essere effettuata tenendo conto di diverse variabili:

a) Tempo dall’insorgenza del dolore e livello del centro:
- > 12 ore Centro di I o II livello (centro con unità di terapia intensiva od UTIC);
- > 6 e < 12 ore: criterio di preferenza per l’invio in Emodinamica (specie per i pazienti ad alto rischio);
- < 6 ore: stratificazione prognostica (PCI nei pazienti ad alto rischio).

b) Rischio-severità del quadro clinico ed ECG:
- complicanze “meccaniche”:?centro di IV livello (Cardiochirurgia);
- shock e controindicazioni alla trombolisi: emodinamica;
- rischio elevato: tempo per l’Emodinamica < 90’: inviare in emodinamica (± inibitore GP IIb/IIIa);
tempo per l’Emodinamica > 90’: inviare a centro di I o II livello per trombolisi. Emodinamica per PTCA in caso di trombolisi inefficace.
- rischio medio-basso: inviare a centro di I o II livello per trombolisi. Emodinamica per eventuale PTCA in caso di trombolisi inefficace, da valutare nel singolo caso.

c) Tempo di trasporto al Laboratorio di Emodinamica.

d) Criteri di stratificazione prognostica (definire la combinazione di criteri adatta alla propria realtà), prognosi peggiore è associata con: età> 75 anni; pressione sistolica +?100 mmHg e frequenza cardiaca > 100 b/min; TIMI risk score + ?5; infarto anteriore/esteso, ?4 derivazioni con tratto ST sopraslivellato; precedente infarto etero-sede; precedente by-pass aortocoronarico.

LA RETE INTEROSPEDALIERA PER L’INFARTO MIOCARDICO ACUTO: L’IMPORTANZA DELL’ ORGANIZZAZIONE

I dati della letteratura riguardanti l’efficacia dell’ angioplastica primaria anche in pazienti trasferiti a centri di cardiologia interventistica rafforzano l’importanza della creazione di una rete interospedaliera. Il trattamento ottimale dell’infarto miocardio acuto richiede, pertanto, importanti scelte di politica sanitaria ed organizzative.
Cioè è necessaria la creazione di una rete istituzionalizzata che colleghi i laboratori di emodinamica con le UTIC, i reparti di pronto soccorso e cardiologia e il 118. L’esecuzione dell’angioplastica primaria va, infatti, organizzata nell’ambito delle reti interospedaliere ed eseguita nei Centri che, per le caratteristiche strutturali e di know-how, siano in grado di garantire risultati in linea con quelli ottenuti negli studi di riferimento (in termini di tempi di esecuzione , di complicanze e di outcome ospedaliero); si ritiene che questi Centri debbano avere un bacino d’utenza minimo di circa 400.000 abitanti ed avere un volume di PTCA di almeno 400 procedure/anno. È auspicabile che il protocollo di indicazioni e trattamenti farmacologici associati sia unico e condiviso fra i Centri collegati ed è indispensabile un registro di tutti gli IMA ricoverati, che permetta una valutazione adeguata dell’attività svolta e degli outcomes clinici.
La Società Italiana di Cardiologia Invasiva – Gise ha dedicato una sessione degli Stati Generali svoltisi a Maggio 2003 alla realizzazione della “RETE INFARTO”.
Durante la riunione si è deciso di non analizzare i presupposti scientifici che identificano nella PTCA primaria il miglior trattamento disponibile dell’IMA, nè eventuali strategie farmacologiche aggiuntive, ma si è voluto discutere come renderla disponibile per il maggior numero possibile di pazienti colpiti dall’IMA, indipendentemente dall’ospedale al quale afferiscono.
I temi discussi durante la riunione sono stati i seguenti:
1) Quali caratteristiche strutturali e di know-how deve avere un centro che esegue l’angioplastica primaria ?
2) Se si opta per le organizzazioni in reti interospedaliere, chi e come organizzarle e quali sono i problemi prevedibili?
3) Come relazionarsi all’ANMCO (e SIC e FIC) e alle UTIC che rappresenta, nell’ambito delle reti?
4) Come finanziare l’incremento dell’attività che deriva dalla gestione interospedaliera dei pazienti?

Quali caratteristiche strutturali e di know-how deve avere un centro che esegue l’angioplastica primaria ?
Le domande che sono state poste sono state: Si può ipotizzare una diffusione dell’angioplastica primaria in tutte le Cardiologie dotate di Laboratorio di emodinamica? E’ realizzabile un progetto di potenziamento delle emodinamiche diagnostiche ai fini della esecuzione della PTCA primaria ? Per fare ciò è necessaria una organizzazione particolare poichè circa il 60-65% delle procedure viene effettuata al di fuori dell’orario del lavoro. Per ottenere risultati soddisfacenti è necessario che le procedure in emergenza siano eseguite dalla stessa equipe che effettua procedure elettive.
È pertanto necessario istituire un servizio di reperibilità del personale medico e paramedico del laboratori di emodinamica 24 ore su 24 per 365 giorni l’anno. La normativa contrattuale, però, non permette di superare i 6 gg/mese di reperibilità. Quindi, se l’equipe è composta da 1 medico, 2 infermieri professionali (+ un eventuale tecnico), per garantire la reperibilità, l’organico di una Unità di Emodinamica dovrebbe essere composto da almeno 4 medici, 8 infermieri e 4 tecnici, tutti perfettamente addestrati (N.B. questi numeri sono comunque opportuni, indipendentemente).
Per disporre di un tale numero di medici e infermieri professionali addestrati (+ eventuali tecnici), ogni emodinamica deve avere una attività diagnostica ed interventistica adeguata (almeno più di 400 PTCA/anno) ed un bacino d’utenza sufficiente per mantenerla (circa 400.000).
Quindi, l’obiettivo primario non è la diffusione indiscriminata della PTCA primaria, né l’improvvisazione della implementazione dei laboratori diagnostici per eseguire l’angioplastica primaria se mancano presupposti logistici e il bacino d’utenza adeguato, bensì la creazione della rete interospedaliera (Hub and Spoke).

Chi deve organizzare la rete interospedaliera, come e quali sono i problemi prevedibili?
L’organizzazione e la gestione delle reti è il risultato di uno sforzo comune, realizzabile soltanto se si è realmente convinti. I soggetti interessati sono:
a) I laboratori di emodinamica
b) Le UTIC
c) I cardiologi operanti nelle strutture ospedaliere
d) Le associazioni scientifiche (ANMCO, SIC, GISE, FIC)appresentanti del 118 e del PS
e) Organi regionali.
La rete dovrebbe essere organizzata, secondo quanto emerso dagli Stati Generali del Gise, in maniera congiunta da tutti gli interessati.
I problemi principali da affrontare e risolvere saranno: convincere le UTIC periferiche che non perderanno né i loro pazienti, né il ruolo gestionale dell’IMA, organizzare i trasporti dal centro spoke al centro hub e implementare l’attività dei centri hub.
Il problema della diffidenza delle UTIC periferiche è superabile soltanto con la chiarezza dei rapporti e con il riinvio più rapido possibile del paziente al centro di provenienza. È inoltre opportuno e auspicabile che vi sia un coinvolgimento paritario delle UTIC nelle attività scientifiche in tema di sindromi coronariche acute.
Uno dei problemi maggiori, malvissuto dai cardiologi e dal 118, è quello del trasporto del paziente critico dal centro spoke a quello hub. Questo deve essere organizzato in modo tale che il paziente giunga al centro hub in meno di 90 minuti. Non esiste una soluzione univoca a questo problema: ogni singolo ospedale dovrà trovare soluzioni locali, in base al proprio organico ai rapporti interni con i medici del pronto soccorso, con gli anestesisti e con il 118 territoriale. Se il trasporto viene effettuato dal 118 è, però, prioritario che il paziente venga gestito come codice rosso e non come trasporto secondario.
È da sottolineare che durante il trasporto dei pazienti arruolati nello studio DANAMI 2, il medico non era presente e il paziente veniva assistito da un infermiere adeguatamente addestrato. Questa opportunità molto interessante non è però attuabile a breve in Italia. Infine, le regioni e le direzioni degli ospedali dovrebbero tener conto che un incentivo economico (gettone per il trasporto) potrebbe facilitare la disponibilità dei medici e aiutare a risolvere il problema.
Per incrementare l’attività dei centri hub, ogni laboratorio dovrà trovare soluzioni interne adeguate circa la propria attività interventistica. Per quanto riguarda l’incremento delle degenze in UTIC, questa è in parte mitigata dal rinvio rapidissimo dei pazienti (la maggior parte entro le 24 ore) e dall’accorciamento complessivo delle degenze in pazienti con IMA trattati mediante angioplastica primaria.
L’altro annoso problema emerso dalla riunione degli Stati Generali del Gise è come la società deve relazionarsi alle altre associazioni scientifiche (ANMCO, SIC e FIC). È sicuramente importante dare una nuova valenza ai Laboratori di Emodinamica nella gestione dell’IMA, perlomeno paritaria a quello delle UTIC. L’ostacolo deve essere comunque superato nell’ambito dei rapporti fra le Società Scientifiche (GISE vs ANMCO/SIC, FIC); dalla riunione è emersa la volontà di non creare battaglie né prese rigide di posizione perché la soluzione troverà un suo naturale sviluppo strada facendo, quando i laboratori di emodinamica avranno acquisito una maggiore forza contrattuale conquistata sul campo operativo. Tuttavia, le altre Società devono riconoscere fin da subito e ufficialmente il nuovo ruolo dei laboratori di emodinamica nella gestione dell’IMA con conseguente diretto coinvolgimento in tutte le valutazioni programmatiche, negli studi clinici, ecc.
La strutturazione della rete prevede, però, più lavoro e costi maggiori per ogni singolo paziente; un solo infarto impegnerà 2 centri anzichè 1, 4 medici invece di 1 solo, etc. Nel centro spoke, infatti, oltre al cardiologo che normalmente avrebbe completato tutto l’iter diagnostico-terapeutico, si deve attivare un altro medico (cardiologo reperibile, anestesista, medico PS, 118) per il trasporto; nel centro hub dovrà essere attivato l’emodinamista (che sarebbe rimasto a dormire) e il medico dell’UTIC (che non avrebbe mai visto il paziente). Tutto ciò non può funzionare senza alcun incremento dei costi, pertanto sarà necessario creare progetti regionali di finanziamento finalizzati all’organizzazione della rete o stabilire convenzioni extra DRG fra gli ospedali coinvolti con la possibilità di eseguire la PCI primaria in regime di libera professione od ancora utilizzare finanziamenti locali specifici delle ASL.
In conclusione:
1) L’esecuzione dell’angioplastica primaria andrebbe organizzata nell’ambito delle reti interospedaliere ed eseguita nei Centri che per le caratteristiche strutturali e di know-how siano in grado di garantire i risultati in linea con quelli ottenuti negli studi di riferimento (in termini di tempi di esecuzione, di complicanze e di outcome ospedaliero); si ritiene che questi Centri debbano avere un bacino d’utenza minimo di circa 400.000 abitanti ed avere un volume di PTCA di almeno 400/anno.

2) Il protocollo di indicazioni e trattamenti farmacologici associati deve essere unico e condiviso fra i Centri collegati ed è indispensabile un registro di tutti gli IMA ricoverati, che permetta una valutazione adeguata dell’attività svolta e degli outcomes clinici.
L’organizzazione e la gestione delle reti è il risultato di uno sforzo comune, realizzabile soltanto se si è realmente convinti. I soggetti interessati sono:
a) Cardiologi operanti nelle strutture ospedaliere,
b) le associazioni scientifiche (ANMCO, SIC, GISE, FIC, ecc.),
c) rappresentanti del 118 e del PS,
d) organi regionali.

I problemi principali da affrontare e risolvere saranno:
a) convincere le cardiologie periferiche che non perderanno né i loro pazienti né il ruolo gestionale dell’IMA;
b) organizzazione dei trasporti interospedalieri che dovranno necessariamente permettere l’arrivo del paziente in emodinamica in meno di 90’;
c) organizzare l’attività delle emodinamiche 24ore su 24 e fare fronte ad un afflusso di pazienti superiore allo standard abituale nei centri interventistici.

In ogni realtà locale e regionale vanno ricercati i percorsi specifici, basati necessariamente sulle situazioni già esistenti.

3) Nell’ambito dei rapporti del GISE con altre Società Scientifiche (ANMCO, SIC, FIC) sia a livello nazionale che regionale, va ricercato il riconoscimento del nuovo ruolo dei laboratori di emodinamica e degli emodinamisti nella gestione dell’IMA; questo riconoscimento dovrà concretizzarsi tramite il coinvolgimento diretto in tutte le fasi decisionali di tipo programmatico, organizzativo e scientifico, oltre che nei documenti ufficiali che riguardano questo tema.

4) L’incremento dell’attività complessiva nell’ambito di una gestione interospedaliera dell’IMA, difficilmente potrà essere realizzata senza una adeguata copertura finanziaria; le modalità per il reperimento dei fondi vanno individuate localmente; lo sviluppo dei progetti regionali finalizzati è comunque applicabile in tutte le Regioni.

5) L’esecuzione dell’angioplastica primaria nell’ambito della rete intraospedaliera può essere effettuata quando sono soddisfatti gli standard di qualità gia menzionati, con particolare enfasi relativamente ai tempi necessari per il trasferimento.


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