DOPO L'INFARTO: CORONAROGRAFIA A TUTTI ?

Vincenzo Manganiello, Federico Piscione
Cattedra di Cardiologia Università Federico II, Napoli

Il ruolo preciso e la reale efficacia della angiografia coronarica seguita da una eventuale procedura di rivascolarizzazione miocardica effettuata nei giorni o nei mesi a seguire l'infarto miocardico acuto resta tutt'oggi argomento di vivace discussione, in quanto, fin ora, la letteratura internazionale ha dato alla luce solamente dati limitati e contrastanti. La coronarografia eseguita nei pazienti colpiti da IMA riveste un fondamentale ruolo diagnostico, definisce con precisione l'estensione e la gravità della malattia aterosclerotica coronarica e rappresenta l'indagine ottimale per definire il tipo di approccio terapeutico più adatto al paziente: PTCA, CABG o terapia medica; purtuttavia, l'esecuzione routinaria dell'esame coronarografico a tutti i pazienti colpiti da IMA in fase subacuta o cronica sembra non essere utile o addirittura potenzialmente dannoso, soprattutto nei pazienti in cui la terapia trombolitica si sia dimostrata efficace o nei pazienti in cui non sia ipotizzabile una eventuale procedura di rivascolarizzazione miocardica (classe III di evidenza secondo le raccomandazioni AHA/ACC). A tal proposito, le linee guida (AHA/ACC, ESC, FIC) consentono di seguire un preciso percorso per ottenere l'identificazione dei pazienti ad alto rischio di eventi per i quali la coronarografia eseguita in fase tardiva dall'infarto è indicata come momento prodromico alla rivascolarizzazione miocardica (test da sforzo pre-dimissione positivo o evidenza di ischemia reversibile ai test di stress imaging). In riferimento ancora una volta, dunque, alle Raccomandazioni AHA/ACC, l'esecuzione della coronarografia seguita da eventuale procedura di rivascolarizzazione nel post-infarto, appare fortemente incoraggiata o ritenuta unanimemente utile ed efficace (evidenze di classe I e IIa) in pazienti che manifestino episodi di ischemia spontanei o provocati anche da un minimo sforzo fisico, in pazienti in cui urge stabilire una terapia definitiva per eventuali complicanze meccaniche dell'IMA, in pazienti con instabilità emodinamica persistente o anche solo durante l'episodio acuto, in pazienti con riduzione della funzione ventricolare sinistra (FE = 40%), ed in pazienti già sottoposti a precedenti interventi di rivascolarizzazione o affetti da aritmie minacciose ricorrenti. Allo stesso modo appare evidente, da quanto emerge in diversi studi pubblicati, che in pazienti affetti da pregresso IMA ed in cui sia dimostrata la presenza di miocardio vitale identificato con la miocardioscintigrafia perfusionale o mediante ecocardiografia sotto stress farmacologico, la coronarografia seguita da rivascolarizzazione mediante PTCA o CABG sia associata ad un miglior outcome clinico a lungo termine con significativa riduzione della mortalità totale, dell'incidenza di disfunzione ventricolare sinistra ed al miglioramento della performance cardiaca (1,2,3); analogamente, lo studio DANAMI ha dimostrato con chiarezza che il trattamento invasivo (PTCA o CABG) dei pazienti colpiti da IMA e trattati con trombolisi che mostravano angina spontanea o ischemia inducibile si associava ad una ridotta incidenza di reinfarto e ad una riduzione dell'incidenza di ricoveri per sindromi coronariche acute. D'alto canto, anche lo studio SWIFT ha valutato oltre 900 pazienti colpiti da IMA trattati mediante terapia trombolitica con successiva assegnazione (entro 48h) o al braccio invasivo (coronarografia ed eventuale rivascolarizzazione) o al braccio conservativo; i risultati emersi ad 1 anno di follow-up non hanno mostrato alcuna differenza in termini di mortalità o reinfarto tra i due gruppi, sottolineando dunque, che una strategia di tipo invasivo risulta appropriata ed efficace solo se guidata da criteri clinici o dall'evidenza di ischemia inducibile(4). Obiettivo fondamentale nella terapia del post-IMA diviene, dunque, il riconoscimento del miocardio ischemico o vitale, suscettibile di recupero funzionale, ed il conseguente ripristino di un adeguato flusso coronarico a carico dell'arteria responsabile dell'infarto.
Quest'ultimo obiettivo è divenuto di importanza cruciale sin da quando è stato dimostrato già dai trials condotti sulla terapia trombolitica che un flusso coronarico efficace ottenuto precocemente migliora la funzione ventricolare sinistra, riduce l'incidenza di mortalità intraospedaliera e migliora l'outcome clinico a lungo termine (5,6,7,8,9).
Partendo dunque da questo semplice ma fondamentale concetto si è sviluppata negli ultimi anni la cosiddetta "ipotesi dell'arteria aperta" la quale suggerisce che anche la rivascolarizzazione tardiva della coronaria responsabile dell'infarto produca effetti clinici favorevoli limitando l'espansione infartuale, contrastando il rimodellamento in senso dilatativo del ventricolo sinistro e migliorando la sopravvivenza (10,11). Tuttavia, per quanto riguarda gli effetti della riapertura tardiva della coronaria responsabile dell'infarto in assenza di ischemia documentabile, in letteratura emergono dati alquanto conflittuali; esiste, malgrado ciò, la possibilità che la riaperture del vaso responsabile, anche tardivamente, migliori il decorso del post-infarto. Topol e coll., ad esempio, hanno valutato 71 pazienti con IRA (infarct related artery) chiusa tra 12 e 48 ore dopo l'infarto, randomizzandoli al gruppo PTCA o terapia medica; i risultati dello studio hanno dimostrato un aumento della FE nel gruppo PTCA ad 1 mese, ma nessuna differenza è emersa tra i 2 gruppi nel lungo termine (12). Dzavik e coll., invece, hanno studiato 44 pazienti con IRA occlusa entro 6 settimane dall'evento infartuale e li hanno randomizzati al gruppo PTCA o terapia medica; in questo caso i risultati hanno dimostrato un significativo e persistente miglioramento della funzione ventricolare sinistra nel gruppo PTCA (13). In un altro studio, condotto da Zeymer e coll., è stato valutato un gruppo di pazienti (circa 300) colpiti da IMA e affetti da malattia di un singolo vaso coronarico (ramo IVA); tali pazienti erano clinicamente stabili ed asintomatici e venivano randomizzati, dopo un intervallo da 1 a 6 settimane dall'evento acuto, al braccio PTCA o al braccio della terapia medica conservativa. Gli end-point primari di questo studio erano rappresentati da sopravvivenza libera da eventi, reintervento, by-pass aortocoronarico e reospedalizzazione per angina severa ad 1 anno. I risultati hanno mostrato una ridotta necessità di reintervento ed una sopravvivenza a lungo termine (56 mesi) significativamente migliore a favore del gruppo PTCA, concludendo quindi, che tale procedura di rivascolarizzazione in pazienti asintomatici con malattia monovasale, anche in una fase tardiva dell'IMA, ne migliora l'outcome clinico a lungo termine (14). Allo stesso modo, Horie e coll. hanno valutato l'efficacia della PTCA eseguita tardivamente (> 24 h dall'IMA) confrontata con la terapia medica: anche in questo caso il braccio invasivo si è dimostrato essere superiore in termini di riduzione dei volumi telesistolici e telediastolici ventricolari sinistri (miglioramento della performance cardiaca) ed in termini di sopravvivenza libera da eventi al follow-up a lungo termine (15). Risultati contrastanti ha invece fornito lo studio TOAT (16), disegnato proprio per confermare l'ipotesi dell'arteria aperta: 66 pazienti con pregresso IMA anteriore, asintomatici e con esclusivo interessamento della coronaria discendente anteriore venivano randomizzati dopo un mese al trattamento conservativo o alla PTCA con impianto di endoprotesi e valutati a 3, 6 e 12 mesi di follow-up mediante ecocardiografia, test da sforzo e test sulla qualità di vita. I risultati hanno mostrato che la ricanalizzazione dell'IRA, in pazienti asintomatici, 1 mese dopo l'IMA, esercita effetti negativi sul rimodellamento ventricolare sinistro (aumento del volume telediastolico e telesistolico, riduzione della funzione contrattile), ma si associa ad una maggiore tolleranza all'esercizio fisico e ad un miglioramento della qualità di vita. Da quanto esposto appare evidente, dunque, che i risultati forniti dai diversi studi sono comunque limitati, condotti su spesso su un piccolo e selezionato campione di pazienti, e tendenzialmente contraddittori tra loro. In riferimento poi al fatto che alcune evidenze suggeriscono che esista solo una piccola finestra temporale di poche settimane dall'evento acuto nella quale una quota di miocardio possa ancora essere salvato ed il rimodellamento negativo del ventricolo sinistro prevenuto, un altro studio si è proposto di valutare l'effetto della riapertura anche molto tardiva dell'IRA mediante PTCA (> 6 mesi), in un gruppo non selezionato di pazienti con pregresso IMA in cui siano presenti sintomi di ischemia spontanea o sia dimostrata la presenza di ischemia inducibile o miocardio vitale alla miocardioscintigrafia (1).
I risultati di questo studio hanno dimostrato che l'ottenimento di un flusso anterogrado efficace (TIMI 3) anche a lunga distanza dall'evento acuto, si associa a miglioramento della funzione ventricolare sinistra, ad un miglior outcome clinico a lungo termine (follow-up > 3 anni) con effetto di prevenzione della morte cardiaca, suggerendo, quindi, l'esistenza di un prolungato stato di ibernazione miocardica suscettibile di reversibilità, con l'ottenimento di un notevole beneficio clinico a lungo termine. Tali dati supportano, dunque, l'ipotesi dell'arteria aperta, e se si considerano i vari studi nel loro insieme, appare chiaro che tutti gli sforzi dovrebbero essere volti all'identificazione del miocardio vitale, anche in pazienti con occlusioni totali croniche. Tuttavia, come affermato da Sadanandan, gli studi clinici randomizzati sugli effetti della PTCA effettuata a carico di una occlusione cronica dell'arteria responsabile dell'infarto ad un anno dall'IMA, sono limitati ed in conclusivi. Cercando, dunque, di trarre delle conclusioni, possiamo affermare che la coronarografia seguita da eventuale procedura di rivascolarizzazione nel post-infarto riveste un ruolo fondamentale in tutti i pazienti che manifestino ischemia spontanea, instabilità emodinamica, complicazioni meccaniche legate all'IMA o evidenza di inducibilità ischemica o di miocardio vitale, ma che certamente non è allo stato attuale consigliabile il suo utilizzo routinario a tutti i pazienti colpiti da IMA che si trovino in una fase tardiva del decorso clinico. Per quanto riguarda, invece, la rivascolarizzazione tardiva dell'arteria responsabile dell'infarto, i dati a nostra disposizione sono ancora troppo scarsi e contraddittori per trarre delle conclusioni certe. Anche se l'ipotesi dell'arteria aperta rimane un obiettivo affascinante ed in parte supportato da numerose evidenze, ciò che appare chiaro, per ora, è che l'obiettivo fondamentale resta quello di identificare tramite metodiche sempre più accurate dal punto di vista della sensibilità e della specificità, il miocardio ischemico ed il miocardio vitale al fine di selezionare quei pazienti che più possono trarre beneficio da una procedura di rivascolarizzazione, evitando, al tempo stesso, procedure interventistiche inutili, complicate, e potenzialmente dannose.


BIBLIOGRAFIA:
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3) Fath-Ordoubadi F et al. Efficacy of coronary angioplasty for the treatment of hibernating myocardium. Heart, 1999; 82:210-16.
4) SWIFT study. BMJ, 1991, 9;302:556-60.
5) The effects of tissue plasminogen activator, streptokinase, or both on coronary-artery patency, ventricular function, and survival after acute myocardial infarction. The GUSTO angiographic investigators. N Engl J Med, 1993; 329:1615:22.
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12) Topol EJ et al. A randomized trial of late reperfusion therapy for acute myocardial infarction. Thrombolysis and Angioplasty in Myocardial Infarction-6 Study Group. Circulation, 1992;85:2090-9.
13) Dzavik et al. Effects of late poercutaneous transluminal coronary angioplasty of an occluded infarct-related coronary artery on left ventricular function in patients with a recent (6 weeks) Q-wave acute myocardial infarction (Total Occlusion Post-Myocardial Infarction Intervention Study (TOMIIS) a pilot study). Am J Cardiol, 1994;73:856-61.
14) Zeymer et al. Randomized comparison of percutaneous transluminal coronary angioplasty and medical therapy in stable survivors of acute myocardial infarction with single vessel disease. Circulation, 2003, 108:1324
15) Horie et al. Long term benefical effect of late reperfusion for acute anterior myocardial infarction with percutaneous transluminal coronary angioplasty. Circulation, 1998; 98:2377-82.
16) Yousef ZR et al. Late intervention after anterior myocardial infarction. Effects of left ventricular size, function, quality of life and exercise tolerance: results of The Open Artery Trial (TOAT study). JACC, 2002;40:869-76.